Reportage pubblicato su QN il 7 luglio 2013

KHARTOUM
SURA, sucran, taman. Foto, grazie, bene. Bastano tre parole per scoprire la Nubia, la regione nord del Sudan. Qui, lungo l’estrema fascia settentrionale che va dalla capitale Khartoum fino al lago egiziano Nasser, non si vive la tragedia che si legge nei dati agghiaccianti delle organizzazioni internazionali sul Paese. In Sud Sudan, invece, è un altro mondo. Teatro di una guerra civile culminata con l’indipendenza, più di 200mila bambini sono a rischio denutrizione e le ong lanciano l’allarme. Nei villaggi lungo il Nilo è diverso: si conduce una vita agricola senza pretese e quasi sempre resta il tempo per dispensare sorrisi. È dalla regione nubiana, ex regno di Kush, a circa mille chilometri dalle aree di tensione (Darfur e Sud Sudan), che il Paese sogna il riscatto tra tesori archeologici patrimoni dell’Unesco e una popolazione che per salutarsi usa pacche sulle spalle. Una terra che mantiene una cultura propria, diversa da quella egizia, con caratteristiche piramidi e propri sovrani: i leggendari Faraoni Neri che regnarono tra il 750 e il 500 avanti Cristo.

IL LUNGO viaggio attraverso il Grande Nulla del deserto del Bayuda, la spettacolare necropoli di Meroe, la montagna sacra del Jebel Barkal che domina la cittadina di Karima, trova il punto di sintesi a un matrimonio sudanese indossando un thawb, tipico abito lungo delle donne sudanesi che copre i capelli, ma lascia scoperto il volto. È successo all’improvviso, una sera, mentre il vento caldo del deserto ci accarezzava il viso. Pochi istanti dopo eravamo a danzare in semicerchio con tante donne dagli abiti variopinti che ci tenevano per mano. Perché tante feste? «Perché siete khawadja», bianchi stranieri, ci dice il nostro accompagnatore in inglese. Maurizio Levi, grande viaggiatore ed esperto d’Africa, che con la moglie Elena ha creato il primo operatore internazionale del Sudan ‘The italian tourism Co.’, ride: «Ci pensano capaci di fare cose che loro non sanno fare, tant’è che mi è capitato che mi abbiano chiesto di guarire un bambino dall’influenza o di aggiustare la pompa di un pozzo!».
Del resto, per entrare in sintonia con i nubiani, basta fare un giro nei tipici villaggi con le case dai muri dipinti. Sono sufficienti pochi gesti e dalle abitazioni sbuca qualche donna che ospita noi stranieri per bere tè o caffè.

UN’OSPITALITÀ che si risolve tra quattro mura scrostate, una manciata di vestiti impilati in una valigia, una rete come giaciglio e un tavolino di plastica dove appoggiare vivande bollenti. Non ci sono formalismi o strani codici di comportamento: noi siamo lì semplicemente perché per loro la nostra presenza è una specie di festa. Sura, sucran, taman, diciamo ininterrottamente. E quando invertiamo l’ordine delle parole, le donne ridono. Gli uomini indossano il tradizionale abito bianco lungo, la jellabya, e nei mercati confabulano e guardano nella nostra direzione. Vogliono fare una foto ricordo. Sura, sura, dicono. Noi seduti in una delle tante chai house (case del tè) del Paese, ricambiamo con qualche scatto. Sembra strano riuscire a comunicare così facilmente, senza barriere, scambiandosi un semplice sguardo. E dire che tra le nazioni dell’Africa sahariana il Sudan rappresenta una delle meno frequentate, e non si può certo dire che goda di buona fama.

I DATI di Emergency confermano: l’aspettativa di vita è ferma a 55 anni e la mortalità infantile sotto i cinque anni si attesta al 107 per mille. E poi le guerre civili, la più eclatante quella nell’estremo sud per ragioni etniche e religiose che per mezzo secolo ha impedito a un Paese povero di sfruttare le ingenti ricchezze di petrolio, gas e oro, e il recente conflitto tribale nella regione occidentale del Darfur. Senza contare la concorrenza dell’Egitto. Ma per chi atterra in Nubia la realtà è diversa dai soliti itinerari turistici. Si può, infatti, godere della suggestione del paesaggio sahariano con i suoi nomadi, partecipare all’atavica vita nei villaggi contadini lungo le sponde del Nilo e fare un tuffo nel passato ammirando gli imponenti resti di antiche civiltà che si sono susseguite in quest’area per 4mila anni, spesso in stretta connessione con quella egizia.

UN TESORO immenso che sta dando i primi frutti con la nascita, in vicinanza ai siti patrimonio dell’Unesco, di facoltà di archeologia che potrebbero dare impulso alla società ancora incapace di rendersi conto delle risorse culturali di cui dispone. Lo si vede dall’incuria dei siti: cartelli nascosti, erbacce e sacchetti di plastica trascinati dal vento. I Faraoni Neri, dall’alto della loro storia, non  approverebbero.

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