L’altra sera mi è capitato di discutere via twitter con un paio di colleghi. Si parlava di Pd, ex Pci e delle origini democristiane di Renzi e Letta. A questo punto è sorta spontanea una domanda: ha ancora senso utilizzare categorie che non esistono praticamente più da vent’anni? E ha senso ragionare ancora in termini ideologici, quando siamo in un’epoca post ideologica?
La risposta, facendo un salto non da poco, mi è arrivata leggendo le dinamiche della maxi rissa tra ragazzini bolognesi dell’altro giorno. Ora vi spiego il perché.
I giovani adolescenti che si sono affrontati per il controllo dei Giardini Margherita e per rancori nati su un particolare social network avevano parecchi segni distintivi e un’identità costruita a forza di web e stereotipi sociali. Tant’è che i 250 giovani si sono divisi in due macrocategorie: bolobene e bolofeccia che, sono state erroneamente, secondo me, semplificate in ricchi e poveri. In realtà la distinzione è molto più complessa. E parte da un assunto: soprattutto in epoca postmoderna e postideologica, immersi in una società liquida senza punti di riferimento come in passato, c’è la necessità di costruirsi un’identità. E, per farlo, soprattutto in un periodo di grande incertezza com’è quello dell’adolescenza, ci si rifugia nel gruppo dei pari.
Nel pensiero del sociologo David Riesman si riscontrano individui eterodiretti i cui obiettivi variano a seconda della guida che si assume, visto che, appunto, non esistono piu` mete e fini generalizzati. Ciò che si cerca è l’approvazione degli altri e una serie di indirizzi da recepire, perciò è come se si attivasse una sorta di ‘radar’ con cui captare i segnali di proprio interesse. Da questo deriva lo stravolgimento del ruolo genitoriale: se prima i genitori costituivano il nucleo e il fulcro della personalità dei figli, nel nuovo contesto il gruppo dei pari costituisce la giuria. Le stesse aspirazioni di vita e carriera, insieme ai valori fondamentali, mutano notevolmente: se per l’individuo autodiretto il valore cardine era il lavoro, che assurgeva a sfera ipersocializzata in cui tornare dopo essere evasi nell’ambito del tempo libero, per l’individuo eterodiretto anche lo svago diviene un luogo di riconoscimento sociale che implica ansia e preoccupazione di non riuscire ad acquistare approvazione. Seguendo questo ragionamento l’individuo eterodiretto, alla stregua dell’individuo globalizzato, perde l’aspirazione ad emulare modelli del passato o le carriere professionali delle generazioni a lui precedenti, e si ritrova sperduto in una ‘via lattea’ di stelle del cinema, personaggi dei mass media, e uomini contemporanei: ‘Non ricerca la fama – dice Riesman nella ‘Folla solitaria’ – che rappresenta una sorta di oltrepassamento del gruppo dei pari e della sua specifica cultura, (ma) cerca il rispetto e qualcosa di più cioè l’affetto della giuria dei pari, amorfa e scostante, ma pur tuttavia onnipresente’. Usa un punto di vista differente, ma il concetto non cambia molto, Michel Maffesoli, parlando di neotribalismo.
Nel suo ‘Del nomadismo, per una sociologia dell’erranza’ Michel Maffesoli rappresenta la società come un teatro, in cui l’identità si perde nell’identificazione tant’è – si legge – che la varietà nell’abbigliamento, i capelli variopinti e altre manifestazioni (diventano) un cemento socialitario. Tutto questo, per dire, che se è vero che le grandi narrazioni del passato sono morte, non si può prescindere dal costruirsi nuove categorie a cui appartenere, nuove etichette, nuovi e, a volte distorti, punti di riferimento.
Perché, se anche si vive in una società liquida, dove – per seguire Grillo – Pd e Pdl sono praticamente la stessa cosa e le differenze tendono ad assottigliarsi, non è detto che questo appiattimento sia l’inizio da cui partire.. Perché finché non si fa il passo successivo, mischiandosi e amalgamandosi rispettando il ‘diverso’ (vedi la rigidità della distinzione tra bolobene e bolofeccia che porta addirittura allo scontro virtuale e poi fisico, ma anche le espulsioni dei dissidenti al pensiero unico grillino) viene da pensare che, forse, utilizzare le categorie del passato, benché obsolete, possa comunque mettere un certo ordine in questo caos identitario che, inevitabilmente, sfocia in un’aggressività preoccupante. Questo non significa tornare indietro, appellandosi a idee ormai addormentate dal passare degli anni e di eventi epocali, ma crearne di nuove, ricostruendo nuovi punti di riferimento, nuovi baluardi a cui aggrapparsi, nuove visioni del mondo al passo con i tempi. Finché parliamo tanto di leader e molto poco di idee la frustrazione, alla lunga, finirà per seppellirci.
Rosalba Carbutti

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