Il Pd, comunque vada, è costretto a un’analisi di autocoscienza. Se vince (o stravince) lo fa perché non è abbastanza di sinistra (“eh certo, con Renzi si è fatta la Dc ecco perché prende il 40 per cento”). Se perde (vedi Livorno) è perché non ha innovato e ha proseguito con la fissa della ditta di bersaniana memoria. Se il Pd costruisce un progetto collettivo, non leaderistico (modello Bersani) gli si imputa che manca di appeal e dell’uomo carismatico capace di attrarre voti. Al contrario, se il leader c’è ed è anche presidente del Consiglio (modello Renzi) il partito si trasforma in un comitato elettorale del “capo”, rottamando, di fatto, la concezione di partito cara al Novecento. A questo punto, mi chiedo: si riduce davvero tutto a un’antitesi banalotta tra conservazione e innovazione, noi e loro, vecchio e nuovo, ditta e partito “liquido”? E, soprattutto, considerando (nel complesso) i risultati elettorali, perché per una volta non si risparmiano agli elettori di centrosinistra inutili guerre fratricide tra correnti che disgustano anche gli amanti del genere? Il rischio, cari miei, è far la fine della Lista Tsipras che invece di godersi il 4 per cento agognato, si è incartata in una polemica ai più incomprensibile. Tutti contro la Spinelli vs tutti con la Spinelli. Spinelli in Ue vs Spinelli a casa. Aderire al Pse vs non aderire al Pse (questo, invero, è lo psicodramma di Sel). Morale della favola: alla sinistra (rosa o rossa non importa la sfumatura) piace soffrire e vivere sommersa di pippe mentali. Prima – quando come panacea di tutti i mali c’era comunque l’idea di cambiare il mondo – poteva anche avere un senso. Oggi – quando la panacea di tutti i mali è soffocare la corruzione, rottamare il Senato e far estinguere il Movimento 5 Stelle – “questa storia un senso non ce l’ha”.

Rosalba Carbutti