Che la battaglia sull’articolo 18 sia ideologica e permetta alla sinistra Pd e sindacale di ricompattarsi sotto lo stesso simbolo, dopo mesi di scazzi  piuttosto evidenti- vedi Landini/Camusso, ma anche le varie correnti Pd, come bersaniani/giovani turchi/civatiani -, non ci sono dubbi. Basta considerare il fatto che riguarda, circa, il 2,4% delle aziende cioè circa 105.500 imprese su 4,4 milioni. Sul fronte dei lavoratori, invece, i numeri salgono (riguarda il 57,6%, secondo la Cgia di Mestre), mentre i casi affrontati in base all’articolo 18 sono circa 40mila (3mila si risolvono col reintegro). Lo stesso Giorgio Squinzi che oggi incalza “i signori della politica a ridarci un Paese normale” e dà atto a Renzi che sull’articolo 18 “sta andando nella direzione giusta”, non più tardi del marzo 2012, prima di diventare leader di Confindustria, ammetteva candidamente che “il problema non è l’articolo 18, ma la burocrazia, la mancanza di infrastrutture, il costo eccessivo dell’energia”. 
Quindi Renzi ha ragione sì o no? Il punto è un altro. E prescinde dal tifo.  Se ammettiamo – seguendo i numeri sopra – che l’articolo 18 non incide poi così tanto sul mercato del lavoro e sulla possibilità di renderlo effettivamente più flessibile e al passo dei tempi, anche la battaglia per cambiarlo/abolirlo è ideologica. Ideologica nel senso opposto, ma comunque ideologica. Ergo, da qualunque lato la si guardi, si tratta della solita bandiera da sventolare. O di qua o di là. Resta da chiedersi fino a quando sventoleranno due bandiere così diverse nello stesso partito.

Rosalba Carbutti

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