Ecco come funziona il lavoro in carcere che abbassa la recidiva
Il reportage: telefonisti e pasticcieri, il lavoro fisso in carcere
dall’inviata
Rosalba Carbutti
C’è un dentro e un fuori nel carcere «Due Palazzi» di Padova. Corridoi, cancelli, ancora un labirinto di corridoi che sembra non finire mai. In fondo ai arriva nei laboratori di lavoro. Ti accolgono le frasi di Dante «Fatti non foste a viver come bruti» e a destra la concezione di Sant’Agostino sulla giustizia terrena. «Quando entro qui non mi sento più in gabbia. È come se fossi fuori», dice Ahmed, uno dei 167 detenuti-lavoratori. Tre cooperative (Giotto, Work Crossing, AltraCittà) permettono loro un’assunzione regolare, e uno stipendio, a seconda se l’impiego è full time o part time, che va da 600 a mille euro.
Ma il ‘caso Padova’ se non è proprio unico, è certamente raro. Secondo i dati del ministero della Giustizia, aggiornati al 31 agosto, su 60.741 detenuti, i lavoratori non alle dipendenze dell’amministrazione carceraria sono appena 2.459, neanche il 4%. Ancora meno, 700, coloro che hanno un impiego vero. «È questo il problema - dice Nicola Boscoletto, presidente della Coop Giotto che opera al Due Palazzi da trent’anni –. Lavorare in carcere è considerato un premio, addirittura un privilegio, mentre dovrebbe essere la normalità».
Santino, 53 anni, è uno dei pasticceri di Giotto, alle dipendenze della cooperativa Work Crossing, e mentre impasta dolci e fa torroni, ti fissa con i suoi occhi azzurrissimi: «Ho ucciso. Lavorare mi distoglie da questo pensiero fisso». Il suicidio? «Era quasi un’ossessione all’inizio. Oggi non più. Fare il pasticciere mi aiuta tutti i giorni».
Negli spazi di ‘Altra città’ ci accompagna Rossella Favero tra laboratori di assemblaggio, legatoria e cartotecnica, confezionamento, fino alla redazione del giornale Ristretti orizzonti. «I muri sono azzurri, gialli, colorati. Li hanno dipinti i detenuti per creare un’altra città, appunto, dove i reparti – racconta la presidente della cooperativa – hanno nomi di donna: Telma e Luise. Alice. Claudia. Loredana. Beatrice».
Brahim, 42 anni, viene dal Marocco e deve scontare 23 anni di carcere. Quando lo dice gli trema la voce, ma non ha perso la speranza: «Quando uscirò non sarò vecchissimo, potrò ancora riscattarmi. Intanto il lavoro mi dà una speranza, altrimenti non mi resterebbe che la corda». Non è l’unico a evocare quella stramaledetta corda. E i suicidi, in carcere, sono tanti. Troppi. Il dossier Antigone calcola che quest’anno fino al 25 luglio sono stati 27.
Da qui, la necessità di evitare di marcire in cella senza scopo e soprattutto di riconquistare un ruolo anche agli occhi delle famiglie. Negli spazi della cooperativa Giotto c’è il call center dove i detenuti-operatori si occupano delle prenotazioni per l’ospedale di Padova e danno informazioni per la ditta bolognese Illumia che opera nel mercato libero dell’energia elettrica. Lavori veri, non piccoli lavoretti per occupare il tempo. Sui muri sono appese foto della città di Padova e ci sono particolari degli affreschi della cappella degli Scrovegni che mostrano Inferno e Paradiso, vizi e virtù. «Il dentro dev’essere collegato al fuori», spiega Boscoletto. «Una volta una bambina disse a un detenuto: ‘Prima di uccidere non ci potevi pensare prima?’. Lui, che usciva per la prima volta in permesso dopo 17 anni, pregò di essere riportato in carcere. Non riusciva ad affrontare l’impatto con l’esterno, ed è stato proprio in quel giorno che ha iniziato a scontare la sua pena. Noi è su questo che dobbiamo agire, nel rispetto dell’ordinamento e del regolamento penitenziario». Basta guardarsi intorno, e tra i pc del call center e il mega server, quasi ci si dimentica di cancelli, corridoi, sbarre alle finestre. Sembra un qualsiasi posto di lavoro del mondo. Oggi a Padova ci sono 600 detenuti, una sessantina condannati al «fine pena mai». Tra di loro anche Donato Bilancia, il serial killer delle prostitute. Per ora non lavora e recentemente gli è stato negato il permesso che aveva richiesto.
Il direttore del carcere Claudio Mazzeo, nel ricordare l’episodio, ci mostra una piantina del parco del carcere: «Faremo come a Bollate, piccole villette nel giardino. Così i detenuti che non ottengono il permesso di uscire potranno comunque vedere con maggiore privacy la propria famiglia». Nel progetto ci sono casette, piante, panchine. Per un attimo sembra un giardino come un altro. Sembra di essere fuori. Sembra. Ma dentro restano le criticità. La richiesta di creare più posti di lavoro e le lungaggini burocratiche, l’equilibrio tra apertura e controllo, tra vigilare e redimere, tra punire e rieducare.
Nell’AltraCittà del carcere di Padova, Pietro Pagliara, 53 anni, di Brindisi, sta tagliando un cartoncino. Forse diventerà un bloc notes. Per Pietro il lavoro è una salvezza: «Sono condannato all’ergastolo, ma è dal 1996 che entro ed esco di galera. Ora mi prendo qualche soddisfazione: dopo 16 anni, ho avuto il mio primo permesso di 9 ore»
Com’è la vita in carcere?
«Durissima. Primo ero detenuto in Puglia. Non facevo nulla tutto il giorno, era terribile. Nonostante avessi tutta la mia famiglia lì, ho chiesto il trasferimento a Padova. Sono qui da 5 anni. Sapevo che potevo avere un lavoro, uno stipendio. Sembrano ovvietà, ma avere qualche soldo ti permette di non essere un peso per la famiglia».
Il lavoro, gli anni di carcere, il rapporto con gli altri detenuti l’hanno cambiata?
«Da quando sono qui sono diverso. Prima non sentivo nulla, ero freddo. Oggi ho iniziato a provare emozioni. È una sensazione che non conoscevo. Solo a ripensare a quando ho rivisto la mia famiglia ho i brividi. La vede la pelle d’oca sul braccio?».
Riesce a incontrare spesso i suoi famigliari?
«Non è facile, sono lontani. Ma è come se fossero sempre qui. Vede i tatuaggi? Sono i nomi delle mie due figlie di 29 e 24 anni, e quelli dei miei nipoti. È solo per loro che resisto qui dentro. E non è facile, visto che dal 2003 la mia certezza sono tre parole: ‘fine pena mai’».
I suoi figli, la sua famiglia, le sono rimasti vicini?
«Sì. Non ho mai raccontato bene quello che ho fatto. Loro mi conoscono per quello che sono, non per il reato che ho commesso. Mi hanno detto: ‘Noi crediamo in te’. E questo mi permette di andare avanti, anche se spesso penso a mio padre. È venuto a mancare è non è mai venuto a trovarmi in galera».
Lei dovrà passare tutta la vita tra sbarre, cancelli, corridoi infiniti. Qual è la difficoltà più grande?
«Più che vivere rinchiuso, la difficoltà è sentirsi sempre giudicati. Giudicato dai giudici, dagli assistenti sociali, dai compagni di carcere. Da tutti».
Con gli altri detenuti si creano amicizie?
«Ci può essere una simpatia, ma più che amici li considero dei compagni di sventura».
Se, invece, potesse uscire che cosa farebbe come prima cosa?
«Non sarò mai libero. Ma se un giorno succederà non ho dubbi: andrei subito a rivedere il mare».
Rosalba Carbutti
Il lavoro, dicono, nobilita l’uomo, ma a quanto pare in carcere lo nobilita ancora di più. Stando ai dati del ministero della Giustizia, per chi è stato ‘dentro’ e poi esce la recidiva è altissima. Tocca il 68,4 per cento. Ma essendo calcolata solo sui reati dei quali viene scoperto il colpevole, si toccano punte del 90 per cento. In pratica, 9 detenuti su 10 una volta usciti dal carcere delinquono ancora. Cambia tutto, invece, se i detenuti durante la detenzione hanno un lavoro vero. Per chi finisce la pena usufruendo di misure alternative la recidiva si abbatte del 15-19%, per chi inizia un’occupazione in carcere si abbassa addirittura all’1-2 per cento. E, facendo un conto a spanne, considerando che in media il costo di un detenuto per lo Stato va dai 200 ai 250 euro al giorno, si calcola che per ogni punto percentuale in meno di recidiva si risparmierebbero 40 milioni di euro all’anno.
Ma attenzione: non stiamo parlando dei cosiddetti lavori domestici alla dipendenza dell’amministrazione carceraria che occupano oltre 14mila detenuti. Ma di lavori veri. Dove si viene scelti con una vera e propria selezione. A Padova, ad esempio, l’amministrazione del carcere sottopone una lista di nomi alle cooperative, le quali scelgono i candidati che si presumono più adatti. La decisione non è semplice, visto che la maggior parte dei detenuti-candidati non ha mai lavorato in vita sua. Ma come spiega Matteo Marchetto, presidente della cooperativa Work Crossing, «tutto quello che facciamo nel reparto pasticceria, i panettoni, i torroni e le oltre 2mila brioche ogni mattina, sembra un miracolo. Ma succede. Tutti i giorni».
Il direttore del carcere di Padova, Mazzeo, conferma che la prima richiesta dei detenuti è proprio quella di lavorare. Al ‘Due Palazzi’ sono impiegati in 167 e nel solo call center gestito da Giotto lavorano in circa sessanta. C’è anche il cortiletto per la pausa sigaretta e sul muro, bianco, una scritta in brasiliano: Do amor ninguém foge, «Dall’amore non si fugge». La luce del sole è quasi accecante, ma se alzi gli occhi c’è una grata che mette le sbarre anche al cielo e capisci di essere chiuso. Dentro. I detenuti sembrano non farci caso, ma un ergastolano famoso per le rocambolesche evasioni e una seconda vita da operatore del call center lo ripete come un mantra: «Dall’amore non si fugge». Qualcuno lo prende in giro: «Non fuggi anche perché da qui ce l’ha fatta solo Felice Maniero, boss della Mala del Brenta».
Rosalba Carbutti