Nell’ingresso della mia piccola casa sui tetti di Bologna, sopra l’attaccapanni, fa bella mostra di sé una vecchia foto in bianco e nero firmata dal fotografo dell’Ansa Parenti e che ricorda un Bologna- Inter del 1966. E’ un’immagine splendida che ritrae il rossoblù Pascutti in tuffo mentre vola parallelo al manto erboso, Burgnich letteralmente sopra di lui con gli occhi sgranati e increduli, la palla già colpita poco distante destinata a insaccarsi, la rete della porta che si intravvede leggermente sfocata e, sullo sfondo, il pubblico che affollava gli spalti del Dall’Ara. In questo scatto, che i tifosi rossoblù hanno eletto a simbolo della loro fede, è riassunto il calcio di quegli anni. Alla classe genuina del fotografo che è riuscito a cogliere l’attimo fuggente, si aggiungono e si ammirano la folle abilità balistica dell’attaccante, la tenace marcatura a uomo di uno dei difensori simbolo dell’Internazionale e della nazionale azzurra, ma anche quello che una volta erano gli stadi, luoghi dove ogni domenica si celebrava un rito semplice e genuino. La stessa atmosfera che si rivive e si respira nella bella mostra a Palazzo Reale a Milano che raccoglie una altrettanto straordinaria serie di immagini per raccontare la Leggenda del Mago e del Paròn (Quelli che… Milan Inter ’66). Un’occasione da non perdere per i nostalgici di quelle domeniche passate ad ascoltare la radio per sognare in diretta le prodezze di Mazzola, Rivera, Mariolino Corso, Maldini senior e tanti altri indimenticabili campioni, ma anche per ricordare quelle atmosfere e quello che le squadre del cuore rappresentavano. E’ una riflessione che mi accompagna da qualche tempo e, in particolare, da quando il Sassuolo ha meritatamente conquistato il palcoscenico della serie A. Da bambino giocavo in una piccola squadra di provincia e fantasticavo pensando che nel giro di una decina di anni, vincendo uno dopo l’altro i campionati delle varie categorie, avrebbe (e avrei) potuto sfidare le grandi nella massima serie. Mio padre, con pazienza, mi riportava con i piedi per terra spiegandomi che le squadre di calcio erano espressioni di un territorio e mi snocciolava numeri di fronte ai quali ero costretto ad arrendermi… perché se a Milano e provincia vivono milioni di persone è facile che nascano campioni, di certo più di quanto non lo sia in un piccolo centro agricolo della Bassa bolognese. Ragionamento che non faceva una piega. In ogni formazione di serie A erano numerosi i giocatori che provenivano dalle scuole calcio e diventavano bandiere delle squadre stesse in cui erano calcisticamente nati. Poi tutto si è trasformato e sarebbe mio padre a fare la parte dell’ingenuo. Oggi basta avere soldi, tanti soldi e si possono confezionare squadre per vincere tutto e di più senza avere nemmeno un giocatore nato non solo nella città di cui la squadra porta il nome, ma anche ben pochi italiani in campo. A me, lo confesso, questo calcio non piace più, non mi appassiona. Preferisco fermarmi a bordo campo, quando mi capita, per assistere alle partite fra anonime squadre che si sfidano nei campi delle nostre periferie. Forse perché le sento vicine al mio modo di intendere il gioco del pallone e, sotto sotto,  perché vorrei tornare a giocare anche se i miei tempi supplementari sono finiti da un pezzo… Di certo nelle foto che tramanderemo per raccontare il calcio del Duemila ci saranno campioni, squadre più o meno scudettate, ma gli stadi, i luoghi simbolo di tante epiche sfide, non saranno mai più gli stessi di quei tempi lontani. E i tifosi non avranno più il piacere di appendere nell’ingresso delle loro case vecchie foto che raccontano molto più di una partita.

ps: quel giorno del ’66 finì 3 a 2 per noi…