Lo confesso, quei negozi di compro oro che spuntano come funghi nelle nostre città non li sopporto. Non perché pensi male e creda quanto molti sospettano, ovvero che alimentino un certo tipo di attività, ma perché non fanno altro che rammentarmi il periodo buio nel quale gran parte degli italiani si barcamenano. Sbarazzarsi dell’oro di famiglia è un po’ come rinunciare a una libbra di cuore come vorrebbe Shylock nel Mercante di Venezia. Nella mia vita sono stato depredato due volte dai soliti ignoti e in entrambe le occasioni mi sono sentito ferito nell’anima più che nel portafogli. Ma se questo tipo di negozi prolifera significa che un numero sempre maggiore di italiani dimentica certi richiami affettivi perché non può farne a meno. Mi si potrà obiettare che grazie a questo tipo di compravendita così capillarmente diffuso molti riescono ad arrivare a fine mese. Ma di solito, ahimè, giunti a questo stadio risalire la china non è affatto facile. Comunque sia l’ipocrisia mi infastidisce. Quando i titolari di queste attività si ergono poi a paladini dei cittadini facendosi promotori di taglie o di iniziative a favore di questa o di quell’altra categoria, li inviterei in modo energico a starsene al loro posto, a non trattare l’opinione pubblica come una massa di decerebrati. Anche perché questi signori, soprattutto quelli che mandano in giro camion vela per strombazzare le loro demagogiche campagne, fanno poi sfoggio di sgargianti fuoriserie esibite come trofei davanti alle loro rivendite dove entrano mesti cittadini ai quali servono euro di certo non per pagare la benzina della Ferrari. Lo sappiamo tutti, la loro ricchezza si alimenta della miseria altrui e non è un bel ruolo quello che interpretano, come insegna Shakespeare. Provino a farlo con drammatica e silenziosa dignità.