Vado in bicicletta e quando non posso farne a meno salgo sui marciapiedi. Per alcuni è un comportamento aberrante, un gesto di inciviltà che mette a rischio l’incolumità dei pedoni. Per me non lo è affatto e spiegherò perché.

Ognuno di noi può accampare buoni motivi per non cambiare le proprie abitudini e perseverare lungo il cammino intrapreso. Credo però che sia giunto il momento di fare scelte precise e perseguirle con decisione. Anche nelle piccole cose quotidiane è importante essere coerenti con le proprie idee e per questa ragione da quattro anni ho scelto di spostarmi preferibilmente in bicicletta. Solo quando devo trasportare oggetti o effettuare tragitti che vanno oltre i venti chilometri utilizzo l’auto. In alternativa alla due ruote mi servo dei mezzi pubblici, autobus, metropolitana o treno che sia. Ho iniziato a Milano dove da via Paolo Sarpi raggiungevo la redazione in piazzale Loreto (spesso servendomi del Bikemi, l’efficiente servizio di bike sharing allestito dal Comune), sto continuando a Bologna dove dal centro storico raggiungo ogni giorno la sede del giornale a Villanova di Castenaso. Accolgo sempre con entusiasmo chi apre il dibattito sul tema della mobilità, anche quando vengono sollevati falsi problemi, come quello della cosiddetta invasione delle biciclette sui marciapiedi o sotto i portici. Spiego perché lo ritengo un falso problema. In primo luogo perché nessun ciclista sceglie di pedalare là dove circolano pedoni, ma spesso si è costretti per sopravvivere. In Italia, a differenza di quanto accade in altri paesi europei di certo più civili del nostro, i ciclisti non possono beneficiare di piste riservate degne di questo nome per non parlare di parcheggi per le stesse in modo da non dovere sempre andare a caccia di un sostegno al quale attaccare il proprio mezzo per proteggerlo dai soliti ignoti. Da noi non accade nulla di simile e potrei ricordare numerosi episodi di inciviltà stradale nei quali sono rimasto coinvolto solo perché ‘colpevole’ di pedalare. Eppure non mi arrendo, convinto di avere imboccato la strada giusta, anche se in certe situazioni fatico e non poco: in agosto, ad esempio, quando il sole picchia forte e devo procedere con calma nonché asciugarmi il sudore quando arrivo alla meta.  A volte preferirei non faticare o non dovermi proteggere dalla pioggia. Però ho deciso che è importante perseverare e non mi do per vinto, anche se da direttore de Il Giorno avrei avuto il taxi pagato dall’azienda o il pass per infischiarmene dell’area C. Lo faccio perché penso che se fossimo più numerosi a optare per questa scelta la mia città, il luogo dove vivo ci guadagnerebbe. Poi lascio a tutti la libertà di trovare tanti buoni motivi (il mal di schiena, le gomme sgonfie, le salite, le discese, il casco e soprattutto… la pigrizia) per non fare come me. Però credo anche di avere il diritto di non essere trattato come un teppista se, a volte, mi servo del marciapiede, procedendo a passo d’uomo e scusandomi, come faccio, con i pedoni che incrocio. In vent’anni e più di vita da cronista non ho mai sentito di un pedone ferito da un ciclista mentre se ne camminava tranquillo sotto il portico o su un marciapiede. Se una cosa simile accadesse i miei colleghi sarebbero certo i primi a dar fiato alle trombe, consapevoli come sono del diffuso astio nei confronti di chi pedala. Invece mi imbatto ogni giorno in notizie che riguardano pedoni investiti dalle auto mentre attraversano sulle strisce e di ciclisti sbattuti per terra in corrispondenza delle rotatorie o finiti in un fosso per colpa di automobilisti ‘distratti’. Smettiamola di sparare sul pianista perché l’unica colpa che hanno quelli come me è di sognare un mondo migliore dove circolano più bici e meno auto. Per il bene di tutti.