“Continuo a scrivere articoli che durano il tempo di una cagata e nulla di più”. La battuta viene dal leggendario Il Grande Freddo, film del 1983 di Lawrence Kasdan, ed è l’attore nei panni del giornalista della carta stampata (Jeff Goldblum, citato per meriti attribuibili solo alla rete, come d’altronde la data della pellicola) a confessarlo candidamente a una vecchia amica sessantottina reincontrata nella villa dell’amico dove è ambientata la storia.
Mi scuso per l’incipit non propriamente elegante e confesso di appartenere a tale categoria di scribacchini. Non sono il solo, ma sono soprattutto fiero di esserne consapevole. Credo che i più preferiscano ignorarlo o considerarsi Pulitzer mancati per colpe altrui. Preciserei che di mestiere faccio il cronista, se non temessi di offendere la suscettibilità dei colleghi che vanno a caccia di notizie e per i quali piccoli, grandi scoop restano comunque un obiettivo sacro quanto il Gral. Diciamo che, anche se ho perso lo smalto e l’entusiasmo, mi piace annotare quanto mi succede intorno. Non per moraleggiare o per filosofeggiare, ma per il puro, residuo gusto di raccontare, quel che avanza dopo decenni di frequentazione delle redazioni di giornali. E vengo al fatto.

 

Posso definirmi amico dell’arcinoto Bruno Barbieri, lo chef pluristellato che dalle cucine dove ha conquistato allori è passato al piccolo schermo diventandone una star. Lo conosco da quando entrambi portavamo i pantaloni corti: lui ha qualche anno di meno e all’epoca (primi anni Settanta) ci vedevamo al campetto da calcio della parrocchia. Quando ci si incontra in questo modo non ci si perde mai di vista anche se la vita ti porta a percorrere strade diverse. Lui è stato un grande, partendo per New York a 17 anni, salutando la famiglia per imbarcarsi in una nave da crociera dove ha iniziato a muovere i primi passi da aspirante chef. Poi tante esperienze in giro per il mondo, dal mitico Trigabolo di Argenta fino al Cotidie a Londra, conquistando sette stelle, unico in Italia ad avere eguagliato il mitico Gualtiero Marchesi.

Grazie a questa antica amicizia e nonostante appartenga alla suddetta categoria di giornalisti, Bruno si ricorda spesso di me e mi vuole al fianco quando si tratta di presentare in pubblico un suo nuovo libro, anche se non manca di ripetere che “i libri li scrive Vespa, io scrivo ricette”. Fatto sta che mi sono trovato ad accompagnarlo a Reggio Emilia dove, nella centralissima libreria L’Arco, ad attenderlo c’era una sala gremita e all’esterno decine di fan che bramavano un autografo dal pluristellato amico. Com’è logico che sia, stavo a Bruno come i piselli stanno alla cotoletta e così ho avuto modo di apprezzare la variegata natura del suo pubblico. Fra un selfie, un cinque condito da “sei un grande, chef”, un richiamo del nostro al mappazzone, un po’ di gossip sui nemici di Striscia, qualche acida battuta sul collega Cracco, ho salutato Barbieri al termine della conferenza mentre autografava decine e decine e decine di copertine della sua ultima fatica letteraria (Cerco sapori in Piazza Grande edito da Rizzoli) a fan di tutte le età adoranti e sorridenti. Non so per quanto sia andato avanti, suppongo per un’ora buona, e così, insieme al suo paziente manager, ho preso la via di casa lasciando Bruno in balia del suo destino. E qui vengo al secondo punto.

 

Venerdì mattina mi imbatto in una locandina che annuncia al teatro comunale di Casalecchio Il ritorno di Casanova di Arthur Schnitzler con Sandro Lombardi e la regia di Federico Tiezzi. Apprezzo il teatro di Lombardi e di Tiezzi da tempi remoti, quando il postmoderno imperava e i Magazzini Criminali rappresentavano la punta di diamante della scena emergente. Poi ho saputo ammirarne l’evoluzione, conservo in casa le letture in cd di Lombardi di alcune opere di Giovanni Testori e le regie di Tiezzi (ricordo tra le altre un’elegante messa in scena della Norma di Bellini al Comunale di Bologna) continuano a convincermi forse perché mi ricordano il teatro che ho più amato nel corso dei giorni dei miei vent’anni. Così la sera mi sono presentato al piccolo, delizioso teatro di Casalecchio dove ad applaudire Lombardi e il bel testo tratto da Schnitzler c’era un pubblico di una cinquantina di fedeli frequentatori della sala. Pochissimi under 30, forse un paio, in gran parte dai cinquanta insù che, eroicamente e una tantum, si sottraggono al rito della serata davanti alla televisione. I premurosi, ammirevoli giovani animatori del teatro annunciavano all’ingresso che  al termine dello spettacolo (per la cronaca un’autentica chicca) era previsto l’incontro con gli artisti. Passata un’ora, trascorsa in un battito d’ali, e calato il sipario, dopo una ripetuta, convinta serie di applausi, il fuggi fuggi dalla platea è stato rapido ed efficace. Anche imbarazzante, e mi è sembrato inutile costringere il grande Lombardi (uno dei migliori attori di prosa) a uscire per quattro gatti compreso un inutile cronista (senza offesa, ripeto, per quelli veri). E me ne sono tornato a casa riflettendo, mentre il bus 20 percorreva la Porrettana e mi riportava in centro, sul triste destino degli attori che se ne vanno in giro per l’Italia seminando cultura non si sa bene per chi, senza nemmeno avere la soddisfazione (si fa per dire) di autografare un biglietto. Sarei tornato indietro per farmi firmare il mio, ma mi sono detto che forse sarei parso un po’ strampalato a chiederlo mentre era in corso la grande fuga.

 

Così va il mondo, non ho molto da aggiungere o da sottolineare e mi scuso se l’ho tirata per le lunghe. A proposito, ne approfitto per scrivere e quindi tenere a mente che devo farmi autografare il libro di Bruno perché ho un’amica che ci tiene tanto. Siamo nella repubblica degli chef e sono proprio fortunato a poter dire di essere in confidenza con il numero uno (anche se ex aequo). Un piatto (caldo?) alla sua tavola lo troverò sempre. E, di questi tempi, non è affatto roba da poco.