La storia di Pantani, quella vera e non quella che ci hanno raccontato, è già tutta scritta e non c’è bisogno dell’ennesimo colpo di scena per ribadire che qualcuno ha voluto la fine del ciclista, preludio del tragico epilogo dell’uomo. Oggi è la camorra (già si sapeva) a finire nel mirino per un giro di scommesse clandestine, ma chi ha voluto che tutto questo accadesse non appartiene a quel mondo malavitoso. Altri sono i mandanti e gli obiettivi che si volevano raggiungere quel giorno a Madonna di Campiglio. La storia di Pantani è farcita di luoghi comuni, di frasi fatte e di leggende metropolitane che ne hanno alimentato il mito negli anni d’oro per poi seppellirlo quando il campione è stato prescelto per essere immolato e diventare la rappresentazione del male. In realtà l’atleta era tanto amato, ma altrettanto odiato da chi pretende di governare lo sport secondo logiche di mercato. Chi sta alle regole vince (vedi Amstrong), chi si ribella ne paga le conseguenze. Vale nello sport e nella vita, una consuetudine alla quale ci siamo oramai colpevolmente abituati. Pantani in più di un’occasione aveva dimostrato di non essere facilmente governabile, prima stando dalla parte del gruppo nel Tour che stravinse incurante del rischio di vedere annullata l’edizione che lo vedeva protagonista, poi rifiutando il contratto milionario della Mapei di tale Squinzi per restare nella ‘sua’ Mercatone.

Schierarsi dove ti porta il cuore è nobile, ma non è convienente. Lo racconta da un paio d’anni a teatro lo spettacolo di Marco Martinelli che con analitica precisione narra dell’ascesa e della caduta di Pantani, rivelando con chiarezza ed efficacia come sia stato possibile e soprattutto perché sia stato immolato uno dei più grandi atleti che l’Italia abbia mai avuto, uno di quelli che nascono ogni cinquant’anni come sosteneva Luciano Pezzi, il partigiano diventato ciclista e allenatore, scopritore dello stesso Pantani. Lo spettacolo messo in scena dal Teatro delle Albe di Ravenna, vincitore del premio Ubu nel 2013 (massimo riconoscimento alle produzioni teatrali originali in Italia), non è solo la spietata denuncia della storia di Pantani, ma anche la conferma di come l’Italia sia un Paese governato subdolamente e con una spietatezza che non ha pari, quella stessa che ci relega tra i Paesi a più basso indice di democrazia. Classifiche che fanno anche sorridere mentre beviamo il cappuccino al bar, ma terrorizzano quanti finiscono nel mirino del sistema e travolti dall’ingranaggio. Il mondo dell’informazione il più delle volte è complice e si adagia sulle versioni dei fatti più scontate, alimentando il chiacchiericcio. Quello che poi si trasforma in pensiero dominante e che ognuno di noi, colpevolmente distratto, prende per verità appurata quando invece è semplicemente quanto si vuole far credere. E ancora oggi, oggi che la voce intercettata di un camorrista conferma quei sospetti denunciati sin dal primo giorno dallo stesso Pantani e da chi ne conosceva le qualità, resta l’ombra di quella morte per cocaina, che fa allargare le braccia ai soliti benpensanti, a chi poi giustifica sempre l’operato del sistema, a chi finisce sempre per dire “che un po’ se l’è cercata”, a chi non vuol vedere gli orrori della nostra società perché comunque è pericoloso, quanto meno faticoso, non stare al gioco. Pare già di sentire certe frasi fatte: “Sì, vabbè, ma era un drogato…”. Senza pietà, senza porsi mai un altro tipo di domanda, altrettanto legittima e di certo pìù profonda: “E se fosse capitato a me, come avrei reagito?”. Come può sentirsi un giovane atleta, per giunta vincente, scippato non solo della gloria, ma della dignità, catapultato dalla sera alla mattina in un incubo? Cosa prova un uomo travolto all’improvviso da un ambiente crudele, da quelli che prima lo adoravano e ora gli voltavano le spalle ostacolando il suo ritorno alle corse (respinto tre volte al Tour che aveva vinto, quel Tour dove l’eroe era il texano dal volto pulito…)? Può un essere umano abbandonato da tutti (tranne che dalla famiglia e da rari amici) cedere alle lusinghe degli adulatori che invece lo trascinavano nel baratro spremendone le ricchezze conquistate?

Sin da ragazzo ho sempre amato praticare sport e solo raramente mi perdevo inseguendo le trasmissioni in tv o leggendo i giornali. Oltre alla passione per i colori della squadra della mia città, rinforzata dal fatto che mio padre era stato il giovane medico di Giacomo Bulgarelli bambino in quel di Portonovo, mi appassionai alle gesta di Dick Fosbury e del suo rivoluzionario modo di saltare, poi del tennis del ‘ribelle’ John Mc Enroe nonostante Lendl fosse il vincente e poi… E poi di Pantani che riuscì a farmi restare a bocca aperta davanti alla tv, al punto da programmare le vacanze al mare in corrispondenza delle tappe di montagna… Un controsenso, come lui che veniva da Cesenatico ed era un grande scalatore. In quei pomeriggi vincenti coinvolgevo anche mio figlio, che all’epoca aveva poco più di sei anni. Il giorno di Madonna di Campiglio qualcuno rovinò la festa a noi due tifosi in costume da bagno e a mezza Italia, distruggendo un campione che ci avrebbe divertito chissà per quanto tempo ancora. In una parola e senza esagerare, un altro delitto italiano. Imperdonabile.