Il Ministero degli Esteri non è un optional
Cosa resterà dell’Italia a livello di politica estera dopo la fine del governo Renzi e la nomina del nuovo ministro degli Esteri? I nostri interessi sono da tempo essenzialmente concentrati nell’area euromediterranea, nel giardino di casa nostra che però non abbiamo saputo gestire. Rinunciare ad una strategia di politica estera significa davvero rinunciare a se stessi e allora a quel punto a cosa serve lo stato italiano. Tipica mentalità italiana è la continua oscillazione nelle scelte, i giri di valzer politici. Un modo tutto italiano per suffragare degli stereotipi negativi sul nostro conto e che impediscono agli altri Paesi, a cominciare da quelli più vicini geograficamente a noi come la Germania, di prenderci sul serio. Come sosteneva in suo editoriale su Limes, il direttore Lucio Caracciolo, d’altronde saremmo noi i primi responsabili della nostra emarginazione, giacché non riusciamo ad articolare un nostro progetto europeo. “Siamo afflitti dal complesso della dining power: l’importante è avere un posto al tavolo d’onore, anche se non abbiamo nulla da dire (ma alla fine paghiamo il conto quanto e più di chi decide davvero)”. L’Europa potrebbe servire alla sicurezza italiana solo se il nostro Paese, contando maggiormente ad Est, aumenterà la sua importanza per la Germania rendendo possibile un coordinamento politico fra Berlino e Roma. L’Italia serve poi agli italiani nel mondo. Se sommiamo gli italiani d’Italia agli emigrati della Diaspora, otteniamo un totale che supera i cento milioni. Un giacimento geopolitico che attende di essere sfruttato. E che deve essere sottratto alle beghe partitico-elettoralistiche come pure all’avventurismo nazionalistico. Il valzer dei nostri ministri degli Esteri non ci aiuta. Da Gentiloni ad Alfano succede allora che i ministri degli Esteri hanno di fatto abbandonato la politica estera nelle mani dei diplomatici, i quali alla fine, attraverso le piccole cose di tutti i giorni, non si limitano a eseguire direttive politiche, bensì costruiscono una loro politica. Il diplomatico italiano all’estero gode così di una formidabile fortuna: non è oberato né appesantito, può liberamente, o quasi, inventarsi una sua politica nei confronti del paese in cui è chiamato a operare. Le cattive figure restano e inducono il diplomatico ad uno strano gioco delle parti: egli cerca di farsi considerare rappresentante di un’Italia che appaia diversa e presuntivamente migliore di quella espressa dai politici. Un ambasciatore di vecchia data come Luigi Vittorio Ferraris parla di “un’arte che la diplomazia italiana ha sviluppato ampiamente e con successi: il peso dell’Italia all’estero è maggiore di quanto la sua classe politica giustificherebbe; e ciò grazie ad una consumata arte di rappresentazione sino alla falsificazione - a fin di bene certo - della realtà, in cui noi diplomatici siamo diventati espertissimi”. E così mentre va di scena l’ennesimo valzer politico in quello che possiamo definire ormai come Italian Way of Life non ci resta che ammirare la petitesse italiana a volte salvata dai nostri diplomatici per il Mondo.