Guerra e Pace

Uranio impoverito, verso la verità

in Esteri

Sono trascorsi diversi anni ma per molti sodati italiani giustizia è fatta. Una nuova commissione parlamentare d’inchiesta sugli effetti dell’uranio impoverito, afferma l’esistenza, sul piano giuridico, di un nesso di causalità tra l’accertata esposizione all’uranio impoverito e le patologie denunciate dai militari o, per essi, dai loro superstiti. In quasi due anni la commissione ha esaminato documenti, svolto controlli e ispezioni, sentito diversi consulenti scientifici tra cui il fisico Armando Benedetti, la ricercatrice Chiara Cantaluppi, il primario di Medicina del lavoro Domenico Della Porta, l’anatomopatologo Gavino Faa, l’epidemiologo Giuseppe Mastrangelo e gli oncologi Franco Nobile, Riccardo Carlo Rossi e Sandro Sandri. L’uranio impoverito è il residuo inerte che deriva dal trattamento di arricchimento dell’uranio. Viene utilizzato nell’industria militare per corazze o per proiettili ad alta perforazione. Al momento dell’impatto di proiettili ad uranio impoverito con ad esempio dei carri armati, si vengono a costituire nell’aria delle polveri sottili in grado se inalate o ingerite di depositarsi anche nelle cellule umane. Queste nanoparticelle si producono ad altissime temperature dell’ordine di 3000° C, al momento dell’impatto con successiva vaporizzazione. Le nanoparticelle di 0,1 micron, se respirate, raggiungono il sangue nell'arco di un minuto e dopo un'ora dall'inalazione si depositano nel fegato. Il 22 dicembre 2000 il Ministero della Difesa aveva già istituito una commissione, presieduta dal prof. Franco Mandelli, con il compito di accertare tutti gli aspetti medico-scientifici dei casi emersi di patologie tumorali nel personale militare impiegato in Bosnia e soprattutto in Kosovo. Non a caso furono diversi i militari italiani deceduti nei Balcani vittime di uranio impoverito. Quasi tutti colpiti da tumori al sistema emo-linfatico. La prima relazione venne pubblicata il 19 marzo 2001; la seconda relazione il 28 maggio 2001 confermando un “eccesso, statisticamente significativo, di casi di Linfoma di Hodgkin”. Arriviamo al 2006 con una nuova relazione che sottolineò nella nota numero 11 “il fatto che in molti casi, specie negli anni passati, le malattie contratte dai militari interessati non furono diagnosticate per tempo, malgrado alcuni di loro si fossero sottoposti ai controlli sanitari previsti per i soldati in partenza per le missioni internazionali, in particolare quelli del cosiddetto Protocollo Mandelli. Ciò sembra suggerire l’opportunità di rivedere i suddetti esami clinici, al fine di verificarne l’efficacia in ordine alla tempestiva individuazione dell’insorgenza di determinate patologie”. Le conclusioni della commissione presero atto dell’impossibilità di stabilire sulla base delle conoscenze scientifiche, un nesso diretto di causa ed effetto tra le patologie oggetto dell’inchiesta e i singoli fattori di rischio individuati nel corso delle indagini, con particolare riferimento agli effetti derivanti dall’uranio impoverito e dalla dispersione nell’ambiente di nanoparticelle di metalli pesanti. Oggi invece finalmente la svolta nonostante il diniego dei vertici militari che respingono ogni accusa soprattutto quelle legate ad un livello scarso di norme di sicurezza e negazionismo verso i militari stessi. Anche perché fino a quando la vigilanza sulla applicazione della legislazione in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro delle Forze armate verrà svolta esclusivamente dai servizi sanitari e tecnici della Difesa (ispettori domestici) la tendenza ad insabbiare o non condividere delle informazioni sarà sempre alta.

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