Interno dell’aula di Montecitorio, sede della Camera dei Deputati

ROMA

  1. Il Senato dice 180 volte sì alla sua abolizione e Renzi sfida tutti sul referendum. Larga maggioranza sulle riforme ma solo grazie ai voti di Verdini, determinanti.
  2. «QUESTA è una giornata storica e voi (senatori, ndr.) avete deciso di scrivere la storia. Il Paese vi deve una gratitudine istituzionale».
    Il premier è tonico, gagliardo, sfodera sorrisi (e pure i sorrisetti) delle grandi occasioni e, invece della solita toccata&fuga, si presenta al Senato che sta per abolire per sempre due volte: per il discorso dai banchi del governo e il voto finale, piombando a sorpresa nell’Aula.
    Certo, nel suo discorso, Renzi non rinuncia a sfotticchiare, togliersi sassolini dalle scarpe, sfidare «gufi e rosiconi», sulle riforme e non solo. Del resto, si tratta del «giorno in cui nessuno credeva che saremmo arrivati», dice il premier riprendendo il suo primo discorso del febbraio 2014 al Senato, quando esordì con la prima delle sue provocazioni: «Voglio essere l’ultimo presidente del Consiglio a chiedere la fiducia a quest’Aula». «Una provocazione oggi diventata realtà» ricorda soddisfatto. Ringrazia Giorgio Napolitano: «Senza il suo discorso dell’aprile 2013 non ci sarebbe questa riforma e non sarebbe in piedi questa legislatura», dice (dimenticandosi di aggiungere solo «e neppure il mio governo»).RENZI sostiene di «rispettare pesi e contrappesi della Costituzione, con questa riforma», cita Weber, ma il punto focale è il cruciale referendum istituzionale che si terrà a ottobre, rispetto al quale – dice scandendo le parole – «in caso di sconfitta ne trarrò le conferenze». Concetto già ribadito («se perdo mi dimetto»), ma fa sempre effetto. L’opposizione applaude e ride? Renzi ribatte («Sarà bello vedere il giorno dopo la vittoria le stesse facce gaudenti») e sfida i tanti «comitati per il No» presenti in Aula (grillini, centrodestra, sinistra): «Andiamo a vedere da che parte sta il popolo su questa riforma! Se i cittadini la pensano come chi urla o chi scommette sull’Italia!».
    Ma se la riforma Boschi è «la madre di tutte le riforme» e il referendum una sorta di elezione politica camuffata, i problemi, per il governo e la maggioranza, almeno finché il Senato sarà in vita e concede la fiducia, restano in piedi.
    Anche nel voto di ieri, per dire, il bicchiere lo si può vedere mezzo pieno o mezzo vuoto. Pieno se si contano i 180 «sì» alla riforma, ben oltre i 161 voti del plenum (maggioranza assoluta) dell’Aula, che ieri era richiesto. Vuoto se si fanno meglio i conti: senza i 17 voti dei verdiniani (gruppo Ala), cui ieri si sono aggiunti le tre senatrici del mini-gruppo «Fare», legate al sindaco di Verona Flavio Tosi, e due senatori di Forza Italia (Riccardo Villari e Bernabò Bocca), la maggioranza (Pd+Sc+Ncd), al Senato, alla fatidica soglia di 161 voti proprio non ci arriva: 181 meno 22, infatti, fa un modesto 158 voti.
    E questi numeri tengono dentro il Pd, come dentro la maggioranza, l’intera pattuglia degli (ex?) 26 senatori della minoranza dem, la cui «ribellione» era rientrata quest’estate in cambio dell’introduzione di una forma di elettività «semi-diretta» dei futuri senatori. La questione, sembrava risolta, ma ieri la minoranza dem ha battuto un nuovo, sinistro, colpo, presentando un ddl che, nero su bianco, recita «Norme per l’elezione del Senato». I primi firmatari (Fornaro, Pegorer, Gatti, Corsini) non si fidano di Renzi: chiedono l’elezione diretta dei 74 senatori che sono anche consiglieri regionali per legge ordinaria, ben sapendo che ci vuol tempo, almeno due anni, per averla. «Altrimenti – spiega Fornaro – il nostro sì al referendum non sarà scontato come il nostro sì al ddl». Traduzione: potremmo associarci anche noi ai tanti comitati per il No, magari a quelli di Sel&co. Provando a far male al premier fino al punto di farlo cadere. A quel punto l’abolizione del Senato sarebbe stata solo una vittoria di Pirro.

2) “Siamo nani sulle spalle di giganti”. Dai Padri Costituenti alla Terza Repubblica. Un libro del professor Stefano Ceccanti sulla lunga transizione italiana “quasi finita”. 

ROMA
COSA lega la riforma istituzionale che le Camere stanno per approvare (ieri l’ultimo voto del Senato) e persino la nuova legge elettorale (Italicum) al dibattito dell’Assemblea costituente del 1946-’47? Per il professore di Diritto Pubblico Comparato alla Sapienza di Roma, nonché brillante costituzionalista, Stefano Ceccanti il fil rouge è netto, forte, evidente: ci dice che, finalmente, «la lunga transizione italiana è finita». E così s’intitola il suo ultimo libro: La transizione è (quasi) finita (Giappichelli editore), libro dal sottotitolo ancor più programmatico: Come risolvere nel 2016 problemi aperti 70 anni prima.

PRIMA di entrare nel merito del testo – fondamentale anche come vademecum verso il referendum costituzionale che si terrà a ottobre – conviene dire qualcosa sull’autore. Cattolico democratico formatosi nell’ambiente della Fuci, referendario entusiasta nei primi anni Novanta, cristiano-sociale e poi liberal cattolico nel crogiuolo politico che ha visto nascere prima il Pds-Ds e, poi il Pd veltroniano ieri e, oggi, renziano, Ceccanti ha servito le istituzioni come senatore del Pd, membro della commissione dei Saggi di Napolitano, consulente di diversi ministri e ministeri: un vero civil servant, uomo di parte che, con genio e verve, prende «parte», come nel caso del suo convinto «sì» alla riforma del Senato e del Titolo V voluta dal governo Renzi e del relativo referendum, ma si fa forte di testi, citazioni, paragoni.
E qui, appunto, veniamo al libro. Ceccanti, prima ancora di raccontare, con linguaggio chiaro e diretto, i cambiamenti costituzionali e le trasformazioni del nostro bicameralismo, cita due autori cult, faro di ogni buon costituzionalista. Il padre del costituzionalismo italiano, Costantino Mortati, e il padre della politologia europea, il francese Maurice Duverger. Entrambi vengono usati da Ceccanti per supportarne la tesi di fondo: anche i migliori costituzionalisti di ieri avallerebbero le riforme di oggi fatte dal governo Renzi.

DI MORTATI, messo ad exergo del libro, viene ricordata la triste profezia: come relatore del progetto della prima parte della Costituzione, chiese inutilmente «un Senato eletto su base regionale» per evitare «inutili doppioni» con la Camera. Duverger viene citato per imbastire il paragone tra le due esperienze più note e decisive di transizione di forme di governo democratiche dell’Europa: la Francia dalla IV alla V Repubblica e l’Italia, dalla «transizione infinita» degli anni ’90 alle riforme attuali.

CECCANTI, pur ammettendo che «siamo nani sulle spalle di giganti», è rassicurante sul paragone: «il referendum costituzionale del 2016 chiude la lunga transizione italiana poggia sulle spalle dei giganti del 1946, in continuità con le intenzioni originali dei costituenti». Si tratterebbe di un fatto storico e assai positivo: vedere la trasformazione dell’Italia di oggi, come la Francia di De Gaulle di ieri, «dall’Europa dell’impotenza all’Europa della decisione».
E si tratterebbe anche di un caso di applicazione della cd. «democrazia immediata» cara a Duverger: dalla crisi della Repubblica dei partiti», superata, finora, solo per via di sempre nuove leggi elettorali, ecco riforme istituzionali vere, «di struttura». Alla faccia dei sostenitori del «No», che gridano al «golpe», per Ceccanti, il filo rosso che unisce i saggi riformatori di ieri a quelli smart di oggi c’è e si vede.

NB. Entrambi gli articoli sono stati pubblicati il 21 gennaio 2016 a pagina 10 del Quotidiano Nazionale