E’ una sorta di gladiatrice del futuro, che entra nell’arena (una foresta realizzata all’interno di una capsula tecnologica con effetti comandanti dall’esterno che ricorda The Truman show) a bordo di una biga trainata da cavalli, tra ali di folla osannanti fino al cospetto dell’imperatore-tiranno che detta le regole del gioco, la vita e la morte.

Ma Katniss (l’attrice Jennifer Lawrence), non vince gli “Hunger games” (titolo della saga scritta da Suzanne Collins, ora al secondo film nelle sale con “La ragazza di fuoco”) per la sua aitanza o preparazione bellica: le doti che la contraddistinguono sono intelligenza ed umanità. Finalmente un modello vincente per le nuove generazioni (la serie spopola tra gli adolescenti e non solo) che non propina l’alter ego in gonnella del guerriero ma esalta (queste le vere pari opportunità) innanzitutto le doti intellettive, caratterizzando infine il personaggio per il senso di giustizia, lo spirito di sacrificio, di cura della famiglia, dei più deboli e, perché no, anche dell’amato, che contraddistinguono lo stereotipo femminile più diffuso ma che in questo caso sono stimolo all’azione e non caratterizzazione di un personaggio bisognoso di aiuto salvifico altrui.

Se l’abilità con l’arco e l’intelligenza servono all’eroina per restare viva, è la sensibilità di donna, coltivata nell’intimo e mai esternata, a farla diventare, involontariamente, emblema della rivolta degli oppressi.

Gli Hunger games (giochi degli affamati, nel senso di chi lotta per la sopravvivenza; 24 concorrenti si sfidano all’ultimo sangue finché non resta un solo vincitore), tra l’altro, pongono sullo stesso piano maschi e femmine (uno per ciascun genere per ognuno dei 12 distretti in cui vivono gli oppressi), senza far distinzione neppure in base all’età: si ritrovano a competere, con poche speranze, anche ragazzine e anziane. La ‘chiamata’ ai giochi avviene infatti per estrazione ma Katniss si offre volontaria per salvare la sorellina e c’è chi si candida perché ammaliato dalla popolarità data ai concorrenti dalla partecipazione ad un reality show visto dal mondo intero, benché dall’esito potenzialmente mortale.

La sessualità, non da ultimo, è esternata con rigore: il desiderio è riassunto in un bacio, i giocatori indossano tute attillate ma unisex nei giochi, abiti indistinti nella miseria dei loro luoghi d’origine, abiti sessuati e sfavillanti solo sul palco del reality, che deve fare di loro dei personaggi tv.

La società dominante, rappresentata però soprattutto nei momenti celebrativi legati allo svolgimento dei ‘giochi’, è gestita per lo più da uomini e le donne sembrano relegate ad un ruolo d’immagine, ma nei distretti, nel ‘mondo reale’ di questo ‘mondo irreale’, dove regnano povertà e schiavitù, uomini e donne appaiono indistintamente forti e fragili, sono persone, non genere. Resta però indubbio che sarà una donna a salvare l’umanità da questa distopia.