Luciana Littizzetto
Cara Luciana Littizzetto,
dalla tua ‘scrivania’ a Che tempo che fa, hai affermato che la questione del linguaggio al femminile (trattata dall’Accademia della Crusca, portata avanti dalla presidente della Camera Laura Boldrini ma anche da movimenti come Se non ora, quando?) è secondaria: l’importante è che una bambina in futuro abbia le stesse possibilità di lavorare di un uomo e parità di stipendio. Sull’obiettivo finale, siamo d’accordo. Ma come fa oggi una bambina a pensare ad assurgere a ruoli rilevanti se, a causa del linguaggio, sono tutti declinati al maschile ed è portata a credere che non siano per lei? Ricordi in prima elementare i cartelloni con A come Ape, B come Birillo e così via? Ciò che non nomini, non esiste. Chi vuole un linguaggio corretto, oltre a ricordare che la lingua italiana prevede maschile e femminile, non vuole negare le differenze di genere ma, appunto, distinguerle e valorizzarle. In fondo perché si può dire operaia e contadina e non ministra o chirurga? Un uomo, secondo te, si farebbe dare dell’infermiera o della segretaria? Tu ti faresti dare dell’attore comico?
Nel 1987 la linguista Alma Sabatini scrisse, per la Presidenza del Consiglio dei Ministri, le Raccomandazioni per un uso non sessita della lingua italiana: già allora spiegava che ci sono le procuratrici legali, le segretarie generali (prova a dirlo a Susanna Camusso…), le rettrici (e non, come scherzavi tu, la rettora o la rettoressa, e neppure la presidentessa della Camera, ma la presidente): ma ahimé siamo stati travolti dalla caduta della prima repubblica e da allora la naturale declinazione dei generi si è inceppata. I ruoli di potere sono tutti al maschile, basta guardare l’attuale Governo in cui sono tutti ‘ministro’.
Eppure, benché riferendosi sempre alla Madonna, già Dante nella Divina commedia parla de “la Ministra” e la Chiesa del Salve Regina di “Avvocata nostra”. Perché oggi deve essere più difficile dire ingegnera che spread?
Pensa quanto ha significato definire ‘femminicidio’ l’uccisione delle donne in quanto ‘genere’, spesso da parte dei compagni: è bastata una parola per porre l’attenzione sul tema.
Il linguaggio da solo non può cambiare la cultura patriarcale in cui viviamo ma ne è una componente essenziale, insieme alla parità di incarichi e stipendi, alle quote rosa (ahimè necessarie) nelle elezioni e nei cda, alla toponomastica femminile (le poche strade intitolate alle donne sono per lo più riferite a sante, vergini e postriboli), alla scelta del cognome materno, ai contenuti dei libri di storia, ai personaggi illustri stampati sulle banconote: universi nei quali non esistiamo o siamo parte infinitesimale.