Emmeline Pankhurst arrestata davanti a Buckingham Palace mente tenta di portare una petizione al re Giorgio V nel maggio 1914

2 giugno 1946: 70 anni fa le italiane per la prima volta poterono candidarsi e votare.
In quell’occasione vennero elette al Parlamento 21 donne, le nostri madri costituenti (535 gli uomini), che, pur essendo di estrazione politica e sociale diversa (molte erano state partigiane), lavorarono trasversalmente per porre le basi dell’uguaglianza di genere nella nostra Costituzione. Ma ci sono altre storie di donne che si intrecciano nella lunga lotta per il suffragio femminile e che ci ricordano quanto questo bene sia prezioso, non scontato, e da difendere.
Quarant’anni prima che alle italiane fosse concesso l’accesso alle urne, nel 1906, mentre su slancio di Maria Montessori in tutta Italia nascevano comitati di suffragiste, 10 maestre marchigiane, all’epoca pioniere in un Paese di analfabeti, si iscrissero alle liste elettorali e Ludovico Mortara, giudice della corte di Appello di Ancona, non respinse la loro richiesta: non perché le ritenesse idonee a svolgere i “doveri forti” della politica ma semplicemente perché “quando la legge tace, non vieta”. All’epoca, infatti, il voto amministrativo era espressamente interdetto ‘alle donne, agli analfabeti, nonché ai pazzi, ai detenuti in espiazione di pena e agli imprenditori che hanno subito una procedura di fallimento’, ma per il voto politico bastava avere un’istruzione e il pagamento di un’imposta sul reddito di almeno 19,8 lire l’anno; e poi, recitava lo Statuto Albertino, ‘tutti i regnicoli sono uguali davanti alla legge’. Sui giornali (è curioso ricordare che a quei tempi chi si sentiva diffamato non sporgeva denuncia ma sfidava a duello il direttore della testata) scoppiò il ‘caso delle maestrine’ fino a quando l’ennesimo ricorso mise fine a questa avventura, ricordata, in un racconto romanzato che è anche ritratto di un’epoca, da Maria Rosa Cutrufelli nel libro Il giudice delle donne(ed. Frassinelli): perché le italiane possano votare bisognerà attendere altri 40 anni, passando attraverso 2 guerre mondiali.
Di estrema attualità è anche ‘La mia storia’ scritto dall’inglese Emmeline Goulden Pankhurst (1858 – 1928), che nel 1902, con la figlia Christabel, dopo aver incontrato la suffragista americana Susan B. Anthony, fondò la ‘Women’s Social and Political Union‘: basta elemosinare il voto, si dissero madre e figlia, dato che comitati per il suffragio femminile erano attivi da decenni, dobbiamo agire.
Le parole della Pankhurst sono di grande ispirazione: “La militanza degli uomini, nel corso dei secoli, ha inondato il mondo di sangue, e per le loro opere di orrore e distruzione gli uomini sono stati ricompensati con monumenti, grandi canzoni ed epopee – ricordava -. La militanza delle donne non ha danneggiato alcune vita umana…” se non quella delle militanti stesse che, come ci racconta in immagini l’appassionante film ‘Suffragette’, liberamente tratto da alcuni episodi narrati nella biografia della Wspu, subirono una dura carcerazione, con la tortura dell’alimentazione forzata e l’isolamento, si videro portare via i figli, persero il lavoro, qualcuna anche la vita. “Non ci potrà mai essere una pace reale sulla terra – scrisse Pankhurst – finché alla donna, la metà materna della famiglia umana, non sarà data libertà nei consessi del mondo”. In realtà l’Inghilterra ottenne il suffragio femminile (che esisteva già dal 1893 in Nuova Zelanda, 1902 in Australia, 1913 in Norvegia, 1917 in Russia, 1918 in Austria, Germania, Polonia, 1920 negli Usa) solo nel 1928: Emmeline Pankhurst morì poche settimane prima che divenisse legge. Del resto, per il suffragio, l’Italia ha dovuto attendere il 1945 (la Francia il ’44, la Svizzera il 1971), anche se poi le prime elezioni si tennero nel ’46 (le amministrative il 10 marzo; le politiche, al quale le donne poterono partecipare anche come candidate, il 2 giugno).
Ma anche se il suffragio è raggiunto da 70 anni i fatti storici raccontati con grande nitidezza da Pankhurst sono di estrema attualità. La Wspu, infatti, non dovette lottare contro un regime conservatore: al governo c’era il partito liberale, cui la Pankhurt stessa aveva inizialmente aderito, che affermava pubblicamente fosse giusto concedere il diritto di voto alle donne; ma poi, nei fatti, gli iter parlamentari, costruiti talvolta con delle mediazioni, si inceppavano sempre, si ponevano paletti per evitare assembramenti e riunioni, alle suffragiste veniva impedito di presentare le istanze finché i poliziotti non cominciarono ad alzare le mani su donne inermi, la protesta e la repressione degenerarono. Il partito liberale, considerò le donne della Wspu della ‘traditrici’ perché riteneva di essere l’unico a poter concedere il suffragio femminile; ma come poteva farlo se le ‘suffragette’ (termine derisorio appositamente coniato), anziché lavorare per il partito, gli si rivolgevano contro? In realtà, scrisse la suffragista inglese, “la nostra lunga alleanza con i grandi partiti, la nostra devozione ai programmi di partito, il nostro fedele lavoro durante le elezioni non hanno mai fatto progredire la causa del suffragio di un solo passo… tutti i progetti sul suffragio femminile erano concepiti per il futuro, un futuro talmente lontano da essere invisibile… Le donne avevano sempre lottato per gli uomini e i figli. Adesso erano pronte a lottare per i propri diritti umani”.
Un esempio che ha tante correlazioni con la realtà odierna e la politica ‘riformatrice’ che ci si attende dal nostro Governo, proprio perché guidato dalla sinistra e non dalle forze più conservatrici: eppure solo da pochi giorni, come se fosse di secondaria importanza per il Paese, una ministra (che si fa chiamare ministro) ha ottenuto la delega alle Pari Opportunità. E la convenzione di Istanbul del maggio 2011, che contiene precise indicazioni per contrastare la violenza sulle donne e prevenire i femminicidi (partendo dalla rimozione delle cause, riassumibili nella vigente cultura patriarcale di cui è impregnata l’aria che respiriamo tutti, donne e uomini, al punto da sembrarci naturale), benché diventata legge in Italia, è ancora lettera morta. Per applicarla basterebbero opportuni stanziamenti.
Ciò senza contare che l’obiezione di coscienza sta mettendo a rischio l’applicazione della legge sull’aborto e un nuovo regolamento punisce le donne che agiscono in clandestinità proprio mentre lo Stato viene meno ai suoi doveri di tutela.
Ha stretta correlazione con l’emancipazione femminile e coi valori della Repubblica celebrati in Italia il 2 giugno, anche il monito dell’iraniana Shirin Ebadi, premio Nobel per la Pace nel 2003 per la sua lotta per i diritti umani: nel libro ‘Finché non saremo liberi’ ricorda come sia bastata la disaffezione alla politica, l’abbassare la guardia da parte degli elettori, perché alle amministrative del 2003 a Teheran andasse a votare solo il 12% degli aventi diritto, facilitando così inconsapevolmente la vittoria di Mahmoud Ahmadinejad che solo 2 anni dopo vinse, a sorpresa, anche le presidenziali. Per l’Iran, che già dopo la caduta dello scià nel 1979 aveva sostituito il codice penale laico con un sistema legale basato sulle letture della sharìa, la legge islamica, fu lo sprofondare nella repressione; per Ebadi, che già aveva dovuto lasciare l’incarico da giudice, non più ricopribile da una donna, fu l’inizio di una persecuzione che la costrinse all’esilio.
Tre storie, tre racconti di lotte e sofferenze, per ricordare oggi, a 70 anni dal suffragio femminile, quanto sia importante, in particolare per le donne, esercitare il proprio diritto e dovere di votare.