Caro De Carlo,
ho letto il suo commento uscito sulla Nazione, sul Resto del Carlino e sul Giorno. Credo che lei sia troppo ottimista. E credo che lei esageri sugli effetti benefici sull’economia italiana di un accordo transatlantico, vale a dire fra Usa e Europa.

L’abolizione eventuale dei residui dazi doganali e lo snellimento delle procedure non avranno – a mio parere – conseguenze eccessivamente positive per il nostro commercio.
Pensi un po’: la moda e il lusso che una volta erano dominate dall’Italia oggi non lo sono più. Fendi, Gucci, Pucci, Crizia, Bulgari, Valentino e molte altre non sono più nostre.

L’alimentazione idem: Barilla, Motta, Fiorucci, San Pellegrino, Panna, Peroni e altre.
Cademartori, un big del formaggio, mi ha detto che la Francia ha comprato quasi la totalità delle industrie del latte e dei formaggi.
Le uniche grandi che ci sono rimaste sono Luxottica, Ferrero e Campari.
Mamma mia che paura!
Giuseppe Naim

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Caro De Carlo,
sono anch’io d’accordo che la notizia sia buona: aprire i mercati vuol dire offrire opportunità e offrire opportunità vuole dire progresso in generale.

Penso che però sia importante che questa apertura sia preceduta dalla severa definizione degli standard di qualità dei prodotti . Il grande problema dell’apertura dei mercati creatasi finora sta nella quasi totale mancanza d’informazione su cosa si compra.
Altro problema: l’aver trascurato l’importanza dell’impatto della poca cultura purtroppo esistente fra chi compra. Voglio dire che non si può lasciare il consumatore alla merce dei furbi o dei truffatori e pensare che questo sia un problema del singolo e non dei governi.

L’informazione sulla qualità di un prodotto è fondamentale tanto quanto l apertura dei mercati e a mio parere costituisce un argomento che deve essere risolto in parallelo.
Se l’informazione è carente, deve intervenire lo Stato. Ed è giusto che sia così. Dietro la qualità c’è ricerca e ci sono investimenti che se non tutelati possono scomparire provocando pericoli anche per la salute e la sicurezza, soprattutto in campo alimentare.

Molti prodotti recano già indicazioni su provenienza e caratteristiche in maniera chiara e inequivocabile. Moltissimi altri no.
Prendiamo il caso della Cina: basterebbe scrivere nell’imballo a caratteri grandi e chiari, insieme col nome del prodotto, la sua provenienza per prevenire e sconfiggere in buona parte truffe e mistificazione.

Dopo di che se il consumatore vuole comunque comprare quel prodotto, fatti suoi. Ma questa distinzione deve esserci almeno fino a che tutte le procedure di certificazione non saranno identiche
nei vari Paesi .

Ritengo che tutte le procedure sulla sicurezza, sull’inquinamento, eccetera debbano essere di pari efficacia livello e debbano permettere di partire dagli stessi costi .

Aprire i mercati senza regole severe che nascono dall’esperienza attuale, senza il rispetto per l’importanza della ricerca e degli investimenti sulla qualità, per la difesa della salute o per la sicurezza nei processi di produzione, senza ammettere l’ignoranza della massa dei consumatori, può rovesciare i vantaggi in svantaggi. Così ne approfitterebbero i furbi e aumenterebbero le nostre difficoltà, come quelle che stiamo sperimentando con Cina e compagni.

Io personalmente non sono preoccupato se le nostre aziende hanno capitali stranieri. Sono invece preoccupato dalla mancanza di regole, dalla poca voglia di lavorare, dall’inefficienza burocratica e dai costi di lavoro non competitivi.
Se fossimo competitivi, evviva. Non avrebbe nessuna importanza su chi detenesse il capitale, perché il lavoro e lo sviluppo delle aziende rimarrebbero sempre in casa.
Cordialità,
Mario Galletto

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Pubblico volentieri queste osservazioni dettate dall’esperienza di chi – suppongo – ha fatto o fa ancora impresa.
Mi limito a precisare due punti. Il primo: è vero che tanti marchi illustri non sono più italiani. Ma italiani sono migliaia di altri marchi, molto meno conosciuti, che formano il tessuto della piccola e media impresa e che vivono appunto di export.
Il secondo punto riguarda le regole di un futuro eventuale accordo fra Stati Uniti e Unione Europea. I negoziati – l’ho scritto nel mio commento – si presentano lunghi e difficili. Ma sono condannati, ripeto condannati, ad avere esito positivo.
Usa e Ue sono costretti a fare fronte comune. Debbono difendersi dalla concorrenza sleale della Cina che ha messo fuori dal mercato tante aziende provocando da un lato una colossale e destabilizzante disoccupazione e dall’altro contribuendo al dissesto dei conti pubblici.