Caro De Carlo,
ho letto il suo commento sulla ripresa in Giappone e sulla svolta impressa dalla politica di espansione monetaria voluta dal nuovo premier Shinzo Abe.
Ritengo tuttavia che non si possa paragonare la situazione giapponese a quella italiana.

I sintomi sono gli stessi ma le cause sono differenti.
Quando un giapponese racconta la sua giornata noi non capiamo come possano lavorare tanto. Si svegliano alle 4 o 5 del mattino e tornano a casa a mezzanotte. Dopo averli solamente ascoltati avrei bisogno di una settimana di vacanza per recuperarmi.

In Italia non è così, tutti quelli vicino ai 60 anni non lavorano più perché devono organizzare la loro pensione. I pensionati ovviamente non lavorano. Le donne prima e dopo il parto possono avere oltre un anno di riposo e adesso anche il neo papà ha bisogno di un riposo per stare vicino al suo piccolo.

I giovani prima di accettare un lavoro che non li soddisfa preferiscono rimanere a casa mantenuti dai genitori. Scelgono la laurea anzi la lauretta più facile e più corta e quando uno studente viene accettato da un università tipo il MIT questo fatto suscita la citazione da parte dei giornali italiani.

Le migliori università del mondo sono piene di ragazzi giapponesi e asiatici che si sacrificano per prepararsi il meglio possibile per affrontare un futuro difficile per tutti.
Poi ci sono le vacanze, quelle estive, quella bianca e presto quella rossa.
Adesso hanno la scusa che non c’è lavoro ma se ci fosse lo vorrebbero fare ai loro ritmi.

E se finalmente la Merkel dovesse cedere e si dovesse stampare più moneta cosa faranno gli italiani? Li daranno alla politica, ai super pensionati, alla casta e alle aziende abitualmente in perdita come Ansaldo, Finmeccanica, Ferrovie ecc. ecc.? così saremo più indebitati e con una moneta svalutata.

Dare la colpa alla Merkel è troppo facile. In televisione ognuno fornisce la sua soluzione ma ancora non ho sentito dire da nessuno che l’italiano deve lavorare molto ma molto di più come era abituato a fare una volta.
Giuseppe Naim

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Sarò breve. Se non ci rimbocchiamo le maniche, chiudiamo le frontiere agli immigrati e ci mettiamo a lavorare ce la possiamo fare altrimenti si….chiude.
Rudi Peroni

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Salve,
mi chiamo Francesco e sono un ragazzo di Bologna.
nella mia pausa pranzo stavo leggendo il suo articolo.

Non approvo per niente la sua incitazione all’allargamento della base monetaria.

La trovo piuttosto pericolosa e sovversiva.

Non si puo andare dall’oste e ubriacarsi solo xche il vino costa poco… Prima o poi si cade tramortiti da una sbronza colossale che porta solo a vomito o coma…

Lei incita ad una stampa di denaro forsennata come i vari qe fatti in America. Le ricordo che la bce ha gia in attivo vari ltro e, nonostante questo, si trova a dover tagliare ancora il costo del denaro.

Probabilmenta sarà una bella boccata d’acqua fresca che porta un po di piacere per i primi tempi. Ma poi? Che succederà? Lasciamo tutto il peso a chi viene dopo?
Continuiamo a ragionare sul “chissenefrega”?
Come se non avesse già fatto abbastanza danni ai nostri giovani?

Che Paese gli lasceremo continuando a ragionare cosi?
Spero solo che il nostro paese non sia gia diventato un alcolista.

Saluti,
Francesco Pipitone

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Ecco tre interventi che vanno controcorrente e sono dunque meritevoli di attenzione. Soprattutto quello del giovane Francesco che, a dispetto dell’impatto drammatico che la crisi sta avendo sul mercato del lavoro, sposa le posizioni intransigenti della signora Merkel. Che sono – come si sa – nettamente contrarie a imitare le politiche di espansione monetaria della Fed, copiate di recente anche dal Giappone.

E perché? Perché – ci ricorda Francesco – stampare moneta sarebbe come fornire altra droga a un drogato. Non si costruisce la prosperità economica sull’inflazione. E i tedeschi lo sanno bene. Durante la repubblica di Weimar fra le due guerre l’iperinflazione determinò il collasso della democrazia e l’avvento del nazionalsocialismo.
Giusto. E allora vorrei sottolineare un particolare: al momento, ripeto al momento, l’occidente è ben lontano dall’iperinflazione. Anzi l’inflazione al minimo storico, in forza del crollo dei consumi, rischia di trasformarsi in deflazione.

E invece non bisogna avere paura di un po’ di inflazione.
Il tasso di inflazione misura la temperatura del corpo. Se è troppo bassa, quel corpo morirà di inedia.
La migliore dimostrazione ce la dà la politica della Fed, che ha stampato 4 mila miliardi di dollari in quattro anni e continua a stamparne altri 85 al mese. L’inflazione rimane sotto il 2 per cento. Ma l’economia cresce. Cresce il pil. Cresce l’occupazione. Mentre non cresce il debito pubblico, che accenna piuttosto a un rientro. E ieri Bernanke ha dichiarato che andrà avanti con i suoi quantitative easing sino a che il tasso di disoccupazione non sarà sceso al di sotto del 6,5 per cento.

Ovviamente questa politica non potrà continuare a lungo. C’è un limite al di là del quale l’inflazione potrebbe esplodere. Ed è a questo punto che una vera Banca Centrale, intendo dire una Banca Centrale con veri poteri e non ingabbiata come la Bce, dovrà apportare le necessarie correzioni.
Dovrà invertire la rotta. Rastrellare l’eccesso di liquidità con un aumento dei tassi d’interesse e altri provvedimenti restrittivi. Ma nel frattempo – come ho già scritto oggi – avrà rimesso in piedi il malato, cioè l’economia.

Ricordiamo che l’austerity non ha mai funzionato. Nemmeno quando il Fondo Monetario Internazionale la impose ai Paesi africani. I loro debiti dovettero essere condonati da un occidente che al tempo, anni Ottanta, poteva ancora considerarsi ricco.

Non vedo alternative a questa strategia, alla quale prima o poi dovrà piegarsi anche la Germania. La quale non può rimanere a lungo un’isola di prosperità in un mare in tempesta. Guardiamo alla Volkswagen: profitti in picchiata perché il resto dell’Europa senza soldi non può acquistare le sue auto.

Quanto alle osservazioni dei sig. Naim e Peroni, poco da obiettare. Gli italiani non hanno l’etica del lavoro e la capacità di sacrificio dei giapponesi.

Poco tempo fa, qui a Washington dove risiedo da un ventennio, incontrai un turista italiano di origine marocchina, orgoglioso della sua nuova nazionalità.
Mi disse: sono in Italia da sedici anni, sono diventato cittadino italiano. E così la mia famiglia. Ho lavorato duro, mi sono fatto una piccola impresa, ma sa cosa le dico? Mi sono accorto che gli italiani hanno poca voglia di lavorare, o meglio non hanno l’umiltà di fare qualsiasi lavoro.

L’episodio dovrebbe consigliarci ad avere un atteggiamento rigoroso ma comprensivo nei confronti dell’immigrazione. Chiudere le frontiere non sarebbe giusto e nemmeno praticabile, ma introdurre controlli severi sì.
In certi casi gli immigrati che si fondono nel tessuto sociale del loro nuovo Paese e ne accettano le leggi e i comportamenti, sono una ricchezza e non un impoverimento.