Nonostante  sia obsoleto e ammuffito, il vostro blogger non ha mai particolarmente amato i Beatles. Intendiamoci, se avessi mai dovuto dire la mia nel più sciocchino dei giochini, sulla torre avrei senz’altro lasciato i Rolling Stones. Comunque non posso fare a meno di tirar fuori il pennarellone rosso per sottolineare un anniversario che magari in terra d’Albione qualcuno rimarcherà, ma nell’Italietta sanremese scivolerà via come questa neve bella pronta a sciogliersi rapidamente. Il 25 febbraio avrebbe compiuto 70 anni la buonanima di George Harrison, il terzo Beatles, quello gentile. Ma quello soprattutto oscurato dai tuttologi McCartney-Lennon. Si è scritto sempre abbastanza poco di Sir George, tranne quando è morto, perché allora il fatto che fosse un Beatles, seppur nell’ombra, si rivelò un dettaglio illuminante per la stampa sempre a caccia di un motivo per assembleare un’architettura giornalistica sui Fab Four.

 

Ma attenzione, sbaglia chi pensa che Harrison fosse modesto, con poco talento, ovvero un Beatles lì per sbaglio. Quel ruolo, semmai, era di Ringo Starr, batterista bruttino e deboluccio  invidiato solo per il conto in banca e la moglie, l’ex Bond girl Barbara Bach, una bionda con due occhi acquosi dov’era bello smarrirsi. George era un signor compositore, la sua ‘Something’ è una delle canzone più belle dei Beatles, vanta 200 cover, chi ha scritto quell’arpeggio iniziale di chitarra era toccato da Dio. E anche ‘While my guitar gently weeps’ non era niente male. E fu sempre lui a infilare il sitar  nella musica del quartetto, lui che aveva preso una cotta per le sononorità del guru Ravi Shankar. Il fatto è che McCartney e Lennon imperversavano: Harrison diceva, ho scritto questo pezzo, e loro, sorry George, non c’è posto sul disco.

 

Spentisi i Beatles, George si era dedicato alla carriera solista. L’inizio non fu male, anzi: ‘All things must pass’ fu un triplo album che non passò di certo inosservato, anche perché l’hit ‘My sweet Lord’ finì nella baraonda mediatica e giudiziaria. Troppo simile a ‘He’s so fine’ dei The Chiffons, su sir George piombò l’ignominiosa accusa di plagio. E il tribunale diede ragione ai The Chiffons, condannando l’ex Beatle a pagare mezzo milione di dollari (nel 1976 mica bruscolini), anche se il giudice definì il plagio non intenzionale, insomma,  una caramella per addolcire la sberla. L’anno dopo con l’amico Shankar organizzò il celebre concerto per il Bangladesh, con tanti vip, compreso quell’Eric Clapton che gli avrebbe poi rapito la moglie, Patty Boyd. Intanto l’infatuazione per l’India era quasi un’ossessione per Harrison, lo influenzò, nel bene e nel male. La musica passò quasi in secondo piano nella seconda parte degli anni 70. Alcuni album sfilarono via inosservati. C’era sempre chi sperava in una riunione dei Beatles, magari sarebbe anche avvenuta (nel Live aid?) se mister Chapman non avesse giustiziato  nel nome di chissà quale follia John Lennon. Anche Harrison rischiò la vita. Con la seconda moglie Olivia venne aggredito da un pazzo nel 1999, nella loro bella (e isolata) casa a 70 km da Londra. Tal Michael Abram gli conficcò un coltello nel petto, mancò il cuore di un centimetro. Un centimetro solo. Un miracolo.  E la musica? In secondo piano, forse perché il baronetto non si identificava più nel music business degli anni 80, ‘Somewhere in England’ e ‘Gone troppo’ non piacquero, anche se nel primo c’era il pezzo nostalgico ‘All those years ago’. A tirarlo fuori dal pantano dell’anonimato ci pensò un personaggio sorprendente, Jeff Lynne, sì proprio il boss dell’Electric Light Orchestra (ricordate? ‘Last train to London’).  Lynne produsse con lui un buon disco, ‘Cloud nine’, e soprattutto lo trascinò nell’avventura dei Traveling Wilburys. Anno di grazia 1989, si trattava di una sorta di supergruppo con Lynne, Harrison, Tom Petty, Bob Dylan e Roy Orbison (la voce più bella del mondo, yes, purtroppo mancato pochi giorni dopo l’uscita del disco). Un successone. Ci aveva sorpresi, sir Harrison. L’anonimato non gli apparteneva più. Anche perché forse George era solo depresso: ricostruire una vita musicale dopo qualcosa di così grande come i Beatles era un’impresa da alpinista. La condanna di plagio per ‘My sweet Lord’ lo aveva avvilito, poi il matrimonio finito male, gli anni 80 musicalmente così diversi dagli anni 70. Ma come accade sempre dopo la burrasca, il mare tornò levigato anche per lui, incise buoni dischi. E personalmente ho sempre preferito la sua produzione a quella di Paul McCartney, troppo prevedibile, con quella ‘Hey Jude’ perennemente nella manica, da tirar fuori al momento giusto per inumidire gli occhi della folla nostalgica.

 

Il successo non arrivò più in compenso tornò la tempesta, purtroppo quella definitiva per lui. Era il novembre del 2001 quando Harrison prese il sitar e salì in cielo, lo aspettava Lennon seduto davanti al suo pianoforte bianco, gli disse: ‘Hey George, dove eravamo rimasti?’ E ricominciarono a suonare.