C’è un violino che guizza nell’aria. E un mandolino che viaggia nel tempo. E poi c’è una voce che no, non cambia davvero mai. E’ tornata da noi dopo secoli per raccontarci una storia di 25 anni fa, di un pescatore e il suo blues, lassù nella verde Irlanda.  Noi che ci sentivamo orfani, privati della Big music che ha fatto di Mike Scott e i suoi Waterboys un mito assoluto. Era sparito il nostro eroe. Lunatico, egocentrico, geniale, creativo ma soprattutto innamorato della musica. Autoesiliatosi nel suo castello di certezze & incertezze, circondato da una montagna di nastri e vecchi dischi, da un passato che non passa, e che nemmeno noi vogliamo che passi. Finché un giorno, fato divino, il suo tour infinito si è fermato in Italia, un evento raro. Come perderlo? Anche perché l’occasione era il tour del 25ennale di ‘Fisherman’s blues’, autentica meraviglia degli anni 80.

E così il vostro ammuffito blogger ha mollato la famiglia, sfidato un sabato di burrasca risalendo (di poco) verso Nord con un’auto dolcemente ammaccata. Poi ecco Bologna, Auditorium Manzoni, a fianco di un adorabile negozio di dischi dove a volte amo rifugiarmi per sentirmi meno solo (Disco Rama) un vecchio amico, Sergio Fornasari, che organizza il concerto. E fuori dal teatrino un plotoncino  di fan attempati ma pronti a tutto, come il sottoscritto. E sapete che vi dico? Ne è valsa la pena. Oh se ne è valsa la pena. Intanto perché rivedere quella line-up non è detto che sia ancora possibile, conoscendo il caratterino di Scott. Certo, lui è l’anima dei Waterboys, ma i Waterboys perdono moltissimo senza il violino di Steve Wickham e il sax e il mandolino di Anto Thistlethwaite. E loro son lì, tutti assieme. Ma silenzio, cos’è questa melodia fluttuante? E ‘Strange boat’: chitarra e violino. La magia ha inizio, davanti a un pubblico adorante, disponibilissimo  ad essere conquistato. Ma la scaletta promette di essere molto particolare, come il temperamento del leader. Scott ha da poco pubblicato un cofanetto sestuplo di ‘Fisherman’s blues’, dentro ci sono tutte le incisioni di quel periodo: versioni inedite di hit, rarità, cover (c’è ‘Sergent Pepper’ dei Beatles, cantata a Roma e Milano, ma a Bologna sarà snobbata). Ne attingerà a  piene mani, trascurando gli altri album. E così arriva ‘Higherbound’, scartata dalla tracklist di ‘Fisherman’s blues’,  e poi una sorpresona, ‘A girl called Johnny’, dal primo disco dei Waterboys (1983, oddio quanto tempo). Scott qui pesta il piano, usa un pianismo percussivo efficace, rabbioso, verrebbe da trovarci mille significati. Ma lui è fatto così, un leader che non fa nulla per compiacere, non insegue l’applauso del pubblico, non ha mai ceduto alle canzonette, semplicemente ama suonare ciò che gli piace. Come ”Girl of the north country’, di Bob Dylan, anno di grazia 1963 (manco ero nato) ripescata dall’album seminale ‘The freewheelin’ Bob Dylan’.  Mike è il leader, ma senza Wickham cosa sarebbe? Il fiddle di Steve è imprescindibile per la musica dei Waterboys. Lui  lascia le spalle scivolare all’indietro, alza il capo verso il soffitto e scioglie le dita, animato da un’ispirazione infinita. E da quelle corde sgorgano assoli su assoli. E’ il violino prestato al pop-rock, non solo al folk, è il violino usato come una chitarra. E’ una meraviglia, nelle mani di quest’uomo gentile con un barbone da baleniere. La serata gira attorno a ‘Fisherman’s blues’: ecco ‘When ye go away’, le inedite ‘Tenderfootin’, ‘Come live with me’, e la già nota ‘When we’ll be married?’.  Poi l’unica concessione, ahinoi, a ‘Room to roam’, album capolavoro uscito subito dopo ‘Fisherman’s blues’: la scena qui è tutta di Wickham, il suo violino è l’assoluto padrone del traditional ‘Raggle taggle gypsy’ , irresistibile com’era sul disco, oh yes.

 

Il concerto è un’ascesa verso vette calde, non è solo folk country come ci si poteva un po’ immaginare, la big music di Scott grazie a Dio zampilla rovente. ‘We will not be lovers’ poggia molto su violino e chitarra, ma il sound è quasi hard, subito stemperato da una ballad folk che non ti aspetti, inclusa nel cofanetto: ‘I’m so lonesome I could cry’, firmata nientemeno che Hank Williams. Ma è solo un attimo, una parentesi nella Big music di Scott. Ecco ‘Blues for your baby’ e soprattutto ‘Dont’ bang the drum’, epico affresco del fondamentale album ‘This is the sea’. La versione  ricorda quella della raccolta ‘A pagan place’: niente ritmo, non c’è più quella cavalcata selvaggia fatta di batteria, chitarra e voce disperata. Si parte col piano di Mike, ritmatissimo, poi entrano violino e sax. E’ diversa, com ‘è logico che sia dopo tanti anni, però la suggestione resta vibrante. Ma quando il violino di Wickham accena ‘Sweet thing’ del vecchio Van Morrison, l’Auditorium è come scosso da una mano invisibile. La platea si agita, è stufa di restar inchiodata a poltroncine di velluto rosso mai così fuori luogo per un cocnerto schiettamente rurale. Ed ecco che il Manzoni diventa un’aia irlandese, Mike accenna l’intro di ‘Fisherman’s blues’, a tanti scappa la lacrimuccia e  dalle prime file si alzano anche fan stagionatelli, stempiati, attempati e anche scatenati. Si balla sotto al palco, una giga tira l’altra. Mike saluta, ma per poco. Nel taschino ha ‘The whole of the moon’, gioiello di ‘This is the sea’, l’unico grande hit dei Waterboys, un gruppo che poteva diventare grandissimo e lo è rimasto solo nelle menti di chi è qui, al Manzoni, di chi era a Roma, Milano e poi sarà a Padova. Ma forse è giusto, è meglio così. Siamo alla fine, giusto solo altre due canzoni, inedite,  ‘On my way to heaven’, un gospel serratissimo, e ‘Saints and angels’. Eh già, quanti brani mancherebbero ancora all’appello: ‘The pan within’, ‘This is the sea’, ‘A man is in love’ , ‘Something that is gone’, ‘Too close to heaven’, ‘Higher in time’, ‘And the bang on the ear’, ‘How long will I love you?’… Ma stasera va bene così, a Mike Scott perdono tutto. E lo aspetto ancora.