Chissà come sarebbe oggi Kurt Cobain, vent’anni dopo. Chissà. Certo che pensando a quel volto lacerato penso sempre a chi cantava, tanto tempo fa, ‘spero di morire prima di diventare vecchio’. Cobain era così. Oggi che son passati vent’anni da quel colpo di fucile nella villa di Seattle il fiume dei ricordi torna a ingrossarsi, ma chi ha amato Kurt lo ha ricordato ogni giorno, leggendo i suoi testi, ascoltando la sua musica, magari rivolgendosi le stesse domande per capire il perché di tanta angoscia.

La sua musica non era la mia musica, a volte troppo aggressiva per i miei gusti, però ho sempre amato ‘Nevermind’. Ma il disco che mi ha colpito più di tutti, è un disco diverso dei Nirvana, parlo dell’unplugged in New York. Ricordate? Negli anni 90 ad un certo punto fiorì la moda di staccare la spina, con dei live registrati con un set frugale e soprattutto acustico, per pochi fortunati intimi. A memoria mi vengono in mente gli esempi di Eric Clapton e Neil Young. E dei Nirvana, ovviamente per Mtv. Beh, quel disco è bellissimo. Bellissimo. E  mi conquistò perché mostrò l’altro lato della luna dei Nirvana, già la loro musica fracassona, spigolosa e urlata era meravigliosa anche se filtrata da una voce sussurrata e dolente, un paio di chitarre acustiche, un basso e addirittura una fisarmonica. ‘Something in the way’ mi toglie il cuore, per non parlare di ‘Come as you are’ con quell’incipit tenebroso, ma il capolavoro è la cover di ‘The man who sold the world’ di David Bowie. Lì la spina viene per un attimo riattaccata, il passato si ricuce al presente per volare nel futuro. Ascoltate l’assolo nel mezzo del pezzo, è così lieve che pare un assolo di violino. Pura poesia grunge.