Si chiamava Six Bob tour, nacque nel 1971 per volontà della Charisma records, illuminata etichetta discografica del fantastico e pantagruelico  Tony Stratton Smith. Un bus portava in tour per l’Inghilterra tre band della casa discografica, ogni sera il concerto veniva diviso in tre fette, una a testa per ogni gruppo. Narra la leggenda che durante gli spostamenti del bus se volevi fare delle parole incrociate dovevi sederti in mezzo ai Genesis, se ti andava una birra allora il tuo posto era fra i Lindisfarne (allora quotatissimi, ora dimenticati da secoli), se invece desideravi parlare del significato dell’universo, della vita o della morte, allora il sedile giusto era fra i Van Der Graaf Generator.

 

Questa storiella mi è venuta in mente leggendo ‘Van der Graaf Generator, la biografia italiana’, di Paolo Carnelli, storia di uno dei gruppi più sottovalutati della storia del progressive. E’ passato tanto tempo, di tanto in tanto fanno ancora capolino in qua e in là, con qualche raccogliticcia reunion, ma i ricordi di chi ama la musica e lo straordinario gruppo inglese sono nitidi e fissati a 40 e passa anni fa. Peter Hammill, magro, ombroso e spettrale con quella voce che rimandava all’aldilà, David Jackson, barbuto, basco-munito e con al collo sempre almeno 2/3 strumenti a fiato, poi Guy Evans alla batteria e Hugh Banton a tastiere e basso. Avete notato? Niente chitarra. Esatto. Non è un errore. Nei Vdgg la chitarra aveva un ruolo tutto sommato marginale, e nelle mani del leader. Si sono sciolti, riuniti, risciolti e riuniti, ma i veri Vdgg restano quelli lì di inizio anni 70. Ho sempre pensato che se avessi fatto il dj e avessi tenuto un mio programma, la mia sigla sarebbe stata ‘Theme one’ dei Vdgg, due minuti e 50 secondi strumentali di assoluta potenza, una finestra spalancata per lasciar entrare l’uragano tanta era la potenza di quel pezzo.   Era una band particolare, visionaria, gotica: i brani non erano, come dire, brillanti, bensì cupi, angoscianti, anzi diciamo pure inquietanti nella loro lunare meraviglia. C’era la melodia ma surreale, la voce di Hammill imprimeva alle parole un senso poetico viscerale, se non sepolcrale. La loro musica trasmetteva ansia però dietro ai brividi rifulgeva un’architettura sonora fantastica, gli incastri melodici fra tastiere e i giochi di sax di Jackson erano favolosi. Si respirava un’estrema malinconia fra le pieghe di quella musica, era il pegno da pagare di fronte a tanto fascino. Il mio disco preferito è ‘He to he-who am the only one’, ‘Killer’ è un pezzo di fragorosa bellezza, con quell’assolo di sax di Jackson, assolutamente indimenticabile, sembra scappato fuori da ’21st schizoid man’ dei King Crimson. E poi ‘House with no door’, esistono poche ballate più belle (‘C’è una casa senza porta, io abito lì…’). Per non parlare della suite ‘Lost’, con quel crescendo finale vertiginoso, concluso da quell’urlo, ‘I love you’, che ti resta dentro. Ho amato anche ‘The last we can do is wave to each other’ ( ‘Refugees’, ‘White hammer’) e naturalmente ‘Pawn hearts’, con ‘Theme one’ e ‘Darkness’. Ho anche un vinile della carriera solista di Hammill, ‘Black box’, una seconda vita piena di dischi particolari anche se di scarso successo.

 

I Vdgg inventarono il dark prima di tanti altri, solo che non riuscirono a farlo fruttare più di tanto, ma in Italia sono stati amatissimi, più che in patria, protagonisti di tour sgangherati ma affollati da fan trepidanti. Ancor oggi quando quella sigla arriva da queste parti, in tanti si mobilitano. Perché, e torniamo sempre a questo punto, quella era la vera musica.