Vi dirò, sono appena tornato da un concerto dei Jethro Tull. Sì, sono ancora vivi. E  non sono stati niente male, l’ultima volta li avevo visti 20 anni fa e mi lasciarono in bocca un sapore peggiore. Stavolta sono state due ore gradevoli e soprattutto astutamente calibrate: la prima parte incentrata sull’ultimo cd, l’onesto ma trascurabile  ‘Homo erraticus’, e poi via con i vecchi successi. Sorprendente, perché il vecchio Ian Anderson ha 68 anni, e se la voce regge fino ad un certo punto la presenza scenica è sempre quella di un giovinotto. L’anima da istrione non lo abbandona mai, con quel flauto traverso che lui suona su una gamba sola, come 40 anni fa. Per alleggerirsi un po’, si porta in scena un cantante di spalla, così si affatica di meno, però Ian ci dà dentro, eccome. E sa come incendiare la platea.Pesca abbondantemente da ‘Stand up’ (anno di grazia 1969), poi butta sul tavolo la suite ‘Thick as a brick’, una versione spettacolare di ‘Mother goose’, ‘Cross eyed Mary’ da togliere il fiato, la ruffiana ‘Too old to rock and roll too young to die’, ‘Nothing is easy’, ‘Sweet  dream’,  ‘Bouree’. Curiosamente riesuma qualcosa da ‘A passion play’, opera fra le più discusse degli anni 70, ma per chiudere va sul sicuro: ‘Aqualung’ e come bis ‘Locomotive breath’. Invecchia bene Ian, con ironia e allegria.