Vincere. Cosi quel che costi. E’ quello che un padre di Treviso aveva insegnato al figlio, se è vero – come la sentenza di un giudice di Treviso lascia oggi pensare – che pur di fargli ottenere i migliori risultati possibili in una vasca da nuoto l’uomo lo costringeva ad assumere integratori, sostanze chimiche che miglioravano le sue prestazioni. Lo “bombava”, insomma, anche se solo usare questa parola fa arrabbiare e non poco i padri che ogni fine settimana accompagnano i figli alle partite di pallone, alla corsa ciclistica, a questa o quella competizione. Perché, dicono, solo di integratori alimentari si tratta.
Vero. Come è tuttavia vero che un ragazzino di 14 anni in perfetta salute non ha nessun bisogno di beveroni e pozioni magiche, né di sessioni di allenamento ossessionanti. Nessuno è obbligato a crescere campione.
Il genitore, davanti al magistrato, ha scelto di patteggiare due anni di reclusione con la condizionale. Perché, nel corso delle indagini, i carabinieri hanno dimostrato che i premi e le dimostrazioni d’affetto erano diverse, molto diverse, a seconda dei risultati che il giovanotto otteneva in piscina. E che quando i traguardi non erano quelli sperati il rimprovero diventava umiliazione.
In fondo, e sotto sotto, è sempre la stessa storia: tentiamo, spesso goffamente, di rimediare alle frustrazioni nostre specchiandoci nelle imprese dei figli. Lo facciamo tutti i giorni.
E li obblighiamo a vincere, appunto. Quando sarebbe forse più saggio insegnare a perdere, perché la vita non è solo successo, e noi sì che lo sappiamo, noi sì che in questo siamo campioni. E perché, coi tempi che corrono, addestrare le nuove generazioni a un congruo periodo di disoccupazione o di precariato non sarebbe un’idea malvagia, visto che è soprattutto con questa realtà, come spiega l’Istat, che spesso si trovano a dover fare i conti. Se non lavoreranno loro, sarà soprattutto colpa nostra.