Nella mente di un’amorevole madre, a Lecco, una notte qualsiasi qualcosa si rompe. La donna, lo sappiamo tutti perché è la cronaca di questi giorni, si alza, afferra due coltelli, va in camera e poi uccide le tre figlie. Una alla volta, in un’azione grottesca e surreale che dura molto, moltissimo tempo, che dilata l’orrore all’infinito. Poi tenta senza successo di tagliarsi le vene. E alla fine, disorientata e disperata, chiede aiuto ai vicini. Chiede aiuto quando ormai è l’alba, quando è troppo tardi.

Noi che queste cose dobbiamo vederle da vicino per poi raccontarle, beh, ecco, anche noi ogni volta rimaniamo annichiliti.  Eppure questa, perfino questa, è una vicenda tragicamente comune. Pochi giorni prima, a Milano, un uomo sì ubriaco, ma non tanto ubriaco da non cercare di cancellare le prove, sempre con un coltello ha sgozzato la sua amica, colpevole di resistere a un approccio. E ha ammazzato il figlioletto di lei, improvvisamente diventato testimone scomodo. Si è poi lavato, è tornato a casa sua e ha dormito con la moglie. Come nulla fosse.

Faccio questo lavoro da un sacco di tempo. E in tutto questo tempo ho avuto occasione di raccontare alcune storie. Come quella dell’ufficiale dei carabinieri, una vita e una carriera irreprensibile, che quindici anni fa si svegliò, corse in cucina a prendere un mattarello, e con quel bastone spaccò il cranio alla moglie. Come quella del padre che, prima di impiccarsi, uccise in un garage i due figli piccoli. Come la mamma, anzi: le mamme, perché me ne sono occupato sette volte, che subito dopo aver partorito hanno gettato i loro figli dalla finestra, li hanno chiusi nella lavatrice, li hanno posati nei letti dei fiumi per lasciarli andar via, lontano da loro e lontano dal mondo.

Fortunatamente il dovere di capire spetta ad altri. Noi giornalisti ci limitiamo, o dovremmo limitarci, a raccontare. E’ una fortuna, perché capire non è facile e forse non è possibile. Una cosa, tuttavia, dopo tutto questo tempo credo di averla intuita. Siamo capaci di tutto. Di qualsiasi cosa. E il primo errore è quello di pensare che l’orrore sia sempre una faccenda che riguarda gli altri. Non è così.