Come voi, leggo da tre anni, e in particolare in questi giorni, della vicenda di Giuseppe Uva, l’uomo morto a Varese il 14 giugno del 2008 dopo una burrascosa notte trascorsa nella caserma dei carabinieri.
Dico da tre anni, perché – confesso – il primo ricordo che ho di questa vicenda risale a quel periodo, ed è un ricordo visivo: passavo davanti al tribunale di Varese e trovai tre donne, sole che più sole non avrei potuto immaginare. Stavano lì davanti con uno striscione in mano. Chiedevano la verità. Non sapevo chi fossero. Ricostruii solo dopo che erano una sorella e altri parenti di Uva, impegnati in una battaglia iniziata da tempo e a me ancora sconosciuta. Ci feci un pezzo. In questi giorni, inoltre, sto guardando su YouTube gli interrogatori tenuti all’interno della Procura di Varese.
I fatti noti, quelli finora emersi, li conoscete: su ordine di un giudice delle indagini preliminari, la procura della Repubblica di Varese, quella stessa procura che in più occasioni aveva spinto per l’archiviazione del caso, ha chiesto il rinvio a giudizio di sei poliziotti e di due carabinieri, accusandoli di reati gravi. Omicidio preterintenzionale, arresto illegale e abuso di autorità. Quanto di peggio si possa ipotizzare per chi vesta una divisa.
Ovviamente io non so come andrà a finire. Ma questa storia, una storia sordida e sicuramente opaca, fa riflettere sul rapporto che noi giornalisti abbiamo con le nostre fonti. E di come questo rapporto possa mettere in crisi un altro rapporto, quello con chi l’informazione la legge. E magari va in edicola, apre il borsellino e compra un giornale perché è disposto a pagare per sapere che cosa è accaduto ieri. Chi, come me, si occupa o si è occupato a lungo di cronaca nera sa di cosa sto parlando. I lettori invece, di norma, non lo sanno.
Generalmente, funziona così. Se un cronista racconta quel che fanno i carabinieri, è con i carabinieri che crea (o dovrebbe creare) un rapporto strettissimo. Se segue la polizia, stringe contatti e amicizie – amicizie vere, solide, durature – con i poliziotti. A me, almeno, è successo.
Ogni caserma ha le sue regole. In provincia, per quel che ne so e stavolta ne so, la giornata del cronista tipo è questa. Tra le 9 e le 10, ogni giorno che Dio manda in terra, col sole come pure con la neve, passa a trovare il signor capitano dei carabinieri. Una breve attesa davanti al piantone, poi l’accesso nel suo ufficio. I convenevoli. E l’ufficiale che si fa consegnare le segnalazioni della nottata. Perlopiù son furti e rapine. Incidenti stradali, storie curiose, casi pietosi. Robe così.
Chi è bravo torna a farsi vivo, o almeno a farsi sentire, nel pomeriggio. Altre segnalazioni, altre notizie, da spedire al giornale. Più notizie hai, più soldi guadagni. E i soldi, si sa, servono. I giri, i controlli, continuano fino a notte, con una serie di telefonate alla centrale operativa.
È inevitabile che col tempo i rapporti si consolidino. E, spesso, che la stima reciproca cresca. Una volta ci si dava del lei. Poi, piano piano, si comincia a darsi del tu. Il giornalista e la fonte coltivano interessi comuni, ma non sono esattamente gli stessi interessi. Il signor capitano, spesso, ha tutta l’intenzione di far capire a chi legge i giornali di aver la situazione sotto controllo, di riuscire ad assicurare l’ordine, di essere in grado, con la sua struttura, di tenere a bada il crimine e di tranquillizzare i cittadini. Il cronista ha un’altra esigenza. Lui vuole dare notizie, e le notizie più importanti, o semplicemente quelle più belle, le hanno proprio i capitani e i marescialli. Le vuole per informare. Ma anche per fare colpo. Per finire in prima pagina. Per guadagnare più soldi. Le vuole perché gli servono.
Si va avanti così per anni. Si finisce per andare in vacanza con le tue fonti, che nel frattempo non sono più soltanto fonti, ma punti di riferimento importanti per la tua esistenza. Finisce che un giornalista, la notte dopo un omicidio, magari dorma nella sala d’aspetto della caserma per tenere la situazione sotto controllo.
Succedono anche cose strane. Tipo questa: ogni giorno ti raccontano che non è successo niente di particolare, ma dopo sessanta giorni ti raccontano di quell’uomo che – appunto in sessanta giorni – ha commesso sessanta rapine, una al giorno. E ovviamente ti chiedono di dare un sacco di risalto all’arresto. Qui, ognuno fa il suo. E ognuno ha il suo carattere. Di norma reagivo così: caro signor capitano, mi hai nascosto sessanta notizie, che per me erano sessanta pezzi? Bene, io oggi la notizia di questo rapinatore seriale al giornale non la passo. Poi la rabbia scemava, e uno spazio largo un paio di colonne al giornale lo trovavo. Senza entusiasmo. Così la volta dopo non mi nascondevano sessanta rapine su sessanta. Una decina, magari, le passavano.
Però succede anche altro. Tipo che lo stesso capitano, che ormai ha capito benissimo che ci sai fare, ti chiami una sera e ti spieghi una cosa. «Senti – ti dice – questo pomeriggio hanno svaligiato quella banca e sequestrato il direttore. Io però penso di aver capito chi sono, i banditi. E allora, per favore, puoi non dare questa notizia per un paio di giorni, che devo far mettere sotto controllo tre numeri di telefono?“. Allora, generalmente, non scrivevo, perché mi rendevo conto che c’era in ballo una cosa più seria del mio pezzo.
E il bello di questo lavoro è che ogni giorno devi prendere decisioni, seguendo la tua esperienza e il tuo istinto. Ti pigliano per il naso? Allora scrivi. Hanno davvero questa esigenza? Allora aspetta un momento. Ogni tanto tiravo la corda, ogni tanto l’allentavo. Non dico che questa cosa sia buona e giusta. Dico che funziona così.
A quel punto,  mi chiedo e vi chiedo una cosa: se una mattina il comandante dei carabinieri parla col giornalista e gli dice che all’ospedale, dopo una notte in caserma, è morto un drogato ubriacone, ma che loro, i militari, non c’entrano, voi come pensate che reagirà il cronista? E sto parlando di quel cronista che tanto dalle sua vita ha condiviso con quell’ufficiale?
Io penso, ma è solo un’opinione, che sarà portato a fidarsi ciecamente, a credergli con tutta la convinzione immaginabile, perché sa con quanto zelo e con quanta fatica lui e i suoi uomini si impegnano per assicurare i criminali alla giustizia. Penso che sarà portato a credergli al di là e ben oltre quel che la cronologia dei fatti lo autorizzerebbe a fare.
E questo, questo sì che è un problema serio. Proprio per tale ragione, mi si rizzano le antenne ogni volta che sento alla radio o leggo sui giornali di possibili maltrattamenti in una caserma o in un commissariato (fatti peraltro rarissimi). Perché quando la notizia arriva alle mie orecchie, io ritengo, è già passata attraverso i filtri di quel cronista che vi ho raccontato fino ad ora, quello che (suppongo) prima di buttar fuori una cosa del genere ci avrà pensato mille volte, valutando e rivalutando se c’è del vero in quel che gli raccontano, e pesando uno a uno tutti i pro e i contro della decisione di mettersi controvento.
Per questo, anche per questo, il caso Uva merita di essere seguito con grande attenzione. L’esito della controversia giudiziaria è tutt’altro che scontato. E la sua famiglia bene fa a chiedere chiarezza e verità. Ma in gioco non c’è solo il destino di una famiglia. Anche se di fronte a una morte il resto è dettaglio, questa è l’occasione per riconsiderare, ed eventualmente per riequilibrare, proprio quel rapporto con le fonti che sta alla base del giornalismo che aspira ad essere libero e informato.

@pierofachin