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Alessandro Farruggia
HERAT — «I talebani credevano di averla fatta franca. Di avere prodotto degli ordigni esplosivi improvvisati, i cosiddetti Ied, che fossero  non  rilevabili dai nostri metal detector. E invece hanno sottovalutato gli italiani». Sorride il colonnello Bruno Pisciotta, comandante del 4° Genio Guastatori della brigata Aosta, mentre scende da uno dei giganteschi mezzi blindati antimina Cougar.  A fregare i talebani è stato il combinato disposto della esperienza degli uomini del Genio e della tecnologia di una azienda aretina specializzata in metal detector, la Ceia.
Il problema degli Ied è capitale in Afghanistan. Con gli insorgenti ormai da anni incapaci di condurre ampie operazioni in campo aperto, sono proprio le mine  “artigianali” piazzate lungo le strade la maggior minaccia per truppe Isaf e afghane e ancor più per i civili. Dal 2009 al 2012 gli Ied sono costati (fonte Nato) la vita a 1.027 soldati della coalizione e (fonte Unama) a 3.494 civili. Nel 2013 vanno aggiunti altri 52 soldati e, alla luce del rapporto semestrale Unama, circa 900 civili. Come dire oltre 4.500 morti in soli 5 anni. Ai quali vanno aggiunti quelli delle forze di sicurezza afghane, che hanno certamente avuto molte più vittime delle truppe Isaf, probabilmente il doppio, specie nel 2011/2012/2013 quando i loro numeri sono cresciuti e la loro operatività è aumentata.
In Afghanistan gli Ied venivano originariamente costruiti usando proiettili di artiglieria da 155mm innscati da  da radiocomandi per auto. Poi, con la diffusione dei primi jammer che schermavano elettronicamente i mezzo della coalizione e l’uso sistematico di  metal detector per rilevare le parti metalliche in zone sospette, gli insorgenti hanno usato  telefonini e comandi  a filo e preferito  come esplosivo il nitrato d’ammonio. Ma anche questi Ied erano identificabili. E così si è ridotto al massimo l’uso del metallo.
«I talebani — spiega il colonnello hanno utilizzato sempre più spesso piatti a pressione o fili di grafite, utilizzati perchè  non erano rilevabili dalle apparecchiature in dotazione. I fili di grafite, facilmente reperibili, erano lunghi da 200 metri fino al chilometro e mezzo, cosentendo agli insorgenti di far esplodere l’ordigno e poi fuggire». Un bel problema. «Così due anni fa abbiamo chiamato a Herat la Ceia, gli abbiamo spiegato il problema, e loro ci hanno lavorato su e prodotto un metal detector che rileva anche i fili di grafite.

E’  l’unico al mondo a farlo e infatti l’ hanno acquistato anche i Marines». Che notoriamente, come tutte le forze armate americane, preferiscono tecnologia a stelle e strisce. «Adesso — prosegue il colonnello — con l’uso combinato della conoscenza molto dettagliata del territorio nel quale operiamo, dell’uso di droni per rilevare attività sospette, del pattuglimento appiedato con questi metal detectors e, quando serve, anche del l’uso di cani antiesplosivo, riusciamo ad essere molto, molto efficaci. Gli Ied li mettono ancora, certo, ma nella stragrande parte dei casi li ritroviamo e disinneschiamo. Anzi, abbiamo formato delle squadre anti Ied dell’esercito afghano che sono ormai pienamente operative, e sono loro a ritrovare 8 ordigni su 10». La creatività non ci assolverà che parzialmente dai mancati investimenti in ricerca e sviluppo. Ma per un Paese che qualcuno voleva destinato a un ineluttabile declino tecnologico sulla via della globalizzazione, non c’è male.

E INFATTI al ministero dello Sviluppo Economico sono ben consapevoli che è nella vitalità e nella creatività delle industrie italiane che si trova la chiave della ripresa.

«L’idea che dalla globalizzazione si esce sempre sconfitti è sbagliata. Noi questa partita abbiamo tutte le carte per vincerla. Quello dell’azienda aretina è uno  straordinario caso di eccellenza   e dimostra la capacità di sviluppare innovazione, che le aziende italiane hanno anche in settori ad alta tecnologia».
Carlo Calenda (Sc), viceministro dello Sviluppo Economico con delega all’internazionalizzazione non è sorpreso dalla notizia che giunge dall’Afghanistan. «Su 400 miliardi circa di euro di export di beni — dice — ben 70 miliardi riguardano i macchinari. Abbiamo una peculiare capacità di fare innovazione sulla catena di montaggio più che nei centri di ricerca, spesso in stretta connessione con le necessità del cliente. E questo paga».
Quindi c’è un futuro per la manifattura italiana oltre la moda, il buono e il bello?
«Ovvio. L’Italia rimane un Paese manifatturiero e innovativo. Nella prima fase dell’internazionalizzazione in tanti dicevano: la manifattura è morta, sarà fatta solo in Cina e in India. Ora questo non solo non sta accadendo, ma si sta verificando il contrario, con gli Usa che stanno facendo una politica per far rientrare le manifatture in America, il cosiddetto rishoring».
Negli ultimi 20 anni in Italia è stato fatto di tutto per cercare di danneggiare chi produce.
«L’analisi di Confindustria sul livello di tassazione mi pare eloquente, ma le tasse sono solo una parte del problema. C’è un problema di burocrazia, di legislazione sul lavoro. Eppure nonostante tutto i nostri tassi di crescita dell’export di beni sono superiori a quelli francesi e uguali a quelli tedeschi. Ci ha salvato una domanda molto forte da parte dei paesi in crescita e la straordinaria capacità di fressibilità delle aziende italiane».
Il governo Letta che fa per aiutarle?
«Bisogna prendere la valigetta e viaggiare con loro: in molti paesi questo conta. E poi abbiamo più che raddoppiato le risorse per l’internaziobnalizzazione».
Che userete come?
«Il problema numero 1 è il numero delle aziende esportatrici, ancora relativamente poche. L’export pesano circa per il 30% del nostro Pil, quando la Germania sta al 50%. Abbiamo un grande margine di crescita. Noi abbiamo agito su due fronti: primo, raddoppiando i fondi per l’Ice, passati da 22 a 55 milioni, che sono ancora troppo pochi ma ci consentono di  lavorare di più sul fronte dell aziende piccole e medie. E poi, a partire dal 27 gennaio,  faremo in Italia una ventina di road show proprio per le piccole e medie imprese. Calcoliamo che ci siano circa 70 mila che potrebbero esportare  di più. Ci siamo dati l’obiettivo di contattarne la metà, fornendo loro assistenza a una a una per portarne almeno una parte ad essere stabilmente esportarici».