kabul-taverna-du-l_2795105bHo sempre pensato, nei miei viaggi in Afghanistan, che c’erano stati sorprendentemente pochi attacchi ai ristoranti dove si ritrova la comunità di “espatriati” che vive a Kabul. Certo, sono stati colpti più volte grand alberghi come il Serena, o l’Intercontinental, compund fortificati come l’incredibile Green Village, o lo Spozamai Hotel a Quargha lake, varie guesthouses usate da stranieri. Sono stati compiuti molti attacchi contro singoli occidentali e naturalmente contro convogli con civili stranieri.

Ma per quanto ricordi non erano mai stati attaccati i tanti ristoranti (Kabul ha sempre mantenuto, dopo la cacciata dei talebani, un limitata ma pur sempre sorpredente vita notturna) dove ogni sera si trovavano diplomatici, esperti stranieri, lavoratori di organizzazioni non governative, giornalisti, ricchi afghani. La cosa mi aveva sorpreso perchè Gandamak Lodge, Taverna du Liban, Boccaccio, Mai Thai, le Jardin, Bella Italia erano luoghi pieni di potenziali obiettivi, nei quali si consumava alcool, e che, pure protetti da guardie armate e portoni di ferro, non erano impossibili da colpire. Ghiotti target. E infatti la loro franchigia non poteva durare.

Venerdì sera alle 19 un commando di tre talebani ha attaccato la Taverna du Liban con una tecnica ormai abituale. Un kamikaze si è fatto saltare all’ingresso uccidendo le guardie armate (di solito almeno 2), altri due attaccanti sono penetrati all’interno arnati di Ak 47 e hanno iniziato la mattanza contro gli ospiti. Tra i morti anche il proprietario del locale, il gentile Kamal Hamade, un libanese dai capelli d’argento che era stato propoprietario di un ristorante a Baghdad e da anni si era trasferito a Kabul, creando con il cuo calore umano e la spienza dei suoi cuochi un angolo di tranquillita che tanti ospiti definivano “una casa lontano da casa”. Per molti, Kamal era un amico. Per tutti un ristoratore sapiente e ricco di umanità, che aveva saputo creare una oasi in un paese in guerra.

“Vediamoci alla Taverna” si davano appuntamento tra gli expats, gli espatriati. E mezze, shawarma e la mitica torta al cioccolato di Kamal erano solo una scusa. La taverna era percepito come una safe heaven, una enclave sicura. E le precauzioni alle quali Kamal Hamade teneva molto, erano lì per ricordartelo. Non sono bastate, come non è bastato che Kamal, una volta che gli attentatori sono entrati in sala, invece di scappare sul tetto come ha fatto uno dei cuochi, abbia preso la pistola e abbia cercato di difendere gli amici e i clienti. Lo hanno ammazzato, e il conto dei morti _ prima dell’arrivo delle forze speciali dell’esercito afghano – è ammonto a 21. Cinque erano donne e ben 13 gli stranieri.

E sono loro i destinatari del messaggio. Ogni afghano sa perfettamente che non ci sono posti DAVVERO sicuri in Afghanistan. Neppure il palazzo presidenziale. Adesso lo sanno anche gli stranieri che vivono e lavorano lì. I talebani non possono vincere _ a meno che la politica afghana, dilaninadosi ulteriormnente e affondando nella pervasiva corruzione non ci metta del suo, cosa da non escludere a priori _ ma possono trasformare la vita degli stranieri in Afghanistan in un inferno. Non solo nelle strade, nei palazzi, nelle basi o nei villaggi dove lavorano o operano. Ma anche nei “loro” luoghi, in quelli nei quali si sentivano sicuri. Per gli zelanti manovali del terrore che lavorano con la logica del tanto peggio/tanto meglio, uno sviluppo inevitabile. Per quel martoriato paese un passo ulteriore verso il disimpegno della comunità internazionale e un futuro grigio di paura e miseria.