imagesUsare il gas americano ed esportarlo in Europa per indebolire Putin minando il suo principale asset strategico è una idea che sta guadagnando consensi negli Stati Uniti. Tra i repubblicani e l’industria petrolifera, ma non solo. E geopoliticamente l’idea è seducente. Chi di gas ferisce, di gas perisce.

Sinora gli Stati Uniti sono importatori netti di gas, e lo saranno fino al 2020. E non hanno neppure un terminale per l’export di gas liquefatto (quello che avevano in Alaska è stato chiuso nel 2012). Ma il Dipartimento per l’Energia ha sinora approvato 6 progetti che processeranno 9.07 miliardi di piedi cubi di gas naturale liquefatto (il primo gas verrà spedito a fine 2015 dal terminale di Sabine Pass a Cameron Parish, in Lousiana; gli altri cinque impianti saranno operativi dal 2017/2018) e sta valutando altre 24 richieste (per 22 siti) per altri 31 miliardi di piedi cubi di Lng. La mappa è impressionante. Considerando che gli Stati Uniti producono in media 69 miliardi di piedi cubi di gas al giorno questo significa che circa la metà del gas americano potrebbe, teoricamente, essere esportato.

In realtà, le preoccupazioni ambientali per una scelta del genere sono molto ampie, al punto che secondo il Sierra Club, considerando l’energivoro processo di liquefazione,  l’Lng è inquinante come il carbone. A questo si devono aggiungere gli impatti per le fughe di metano nel processo di estrazione/trasporto (il metano è un potente gas serra: 34 volte l’anidride carbonica), per la crescita dei costi dell’elettricità, per l’aumento esponenziale dell’attrazione di gas attranverso il contestatissimo e ambientalmente molto impattante fracking che la Francia e la Bulgaria hanno totalmente bandito, la Germania ha congelato, l’Italia non vuole ma la Commissione Europea ha rinunciato a bloccare perchè altri paesi europei (dalla Polonia alla Gran Bretagna, all’Olanda all’Irlanda), al pari degli Stati Uniti, vedono come chiave per raggiungere l’indipendenza energetica.

E non ci sono solo preoccupazioni ambientali. Tanto per cominciare i prezzi asiatici (15 dollari per milione di Btu) sono molto più alti di quelli europei (10-11 dollari), e non a caso i contratti a lungo termine dei sei terminali già approvati sono stati appannaggio di compagnie giapponesi (quattro dei sei terminali), sudcoreane, indiane. Indrizzare l’Lng in Europa (dove peraltro a causa della conversione in Lng  trasporto via nave non sarebbe più economico di 10-11 dollari) sarebbe quindi un danno per gli esportatori di gas americani.

E quindi, se anche il progetto _ grazie allo shale gas _ è fattibile, ambientalmente è un disastro e economicamente avrebbe un senso (per le compagnie energetiche, perchè l’impatto sul Pil americano è inifluente) solo se l’export andasse (come economicamente andrebbe senza vincoli politici) verso l’estremo oriente. Il progetto seducente di sostituire la Russia con l’America come esportatore di gas non funziona. Diventa un esercizio muscolare puramente politico strategico.

Il che non significa che non si farà, specialmente se il prossimo presidente degli Stati Uniti sarà un repubblicano. L’esempio delle guerre in Iraq e di quella in Libia sta lì a dimostrarlo: il controllo delle risorse energetiche, da usare come strumento per il mantenimento dell’egemonia, è stato spesso e volentieri il faro delle scelte strategiche di Washington.  E pazienza per i costi economici, umani e ambientali.