Volendo, si può fare qualcosa per far fermare la guerra in Siria. E non necessariamente l’intervento militare, anche ove sia possibile, è la scelta migliore. Spesso per disinnescare conflitti si può ottenere di più se si interviene sugli “sponsor” delle guerre, civili e non. I altre parole su chi fornisce copertura politica, armi e finanziamenti a chi combatte. Anche perchè spesso si tratta  di “proxy wars”, guerre per procura, finanziate da grandi potenze (un classico i conflitti combattuti in mezzo modo, per procura di Usa e Russia, negli anni della Guerra Fredda, ma anche, in tempi recenti, il conflitti in Ucraina) e ormai anche da attori regionali (basti pensare al ruolo di Iran, Arabia Saudita, Qatar, Turchia in Medio Oriente e Nordafrica, di Pakistan e India in Afghanistan). Togliere ossigeno alle guerre è possibile se chi le promuove o le permette si decide a farlo. Sono quindi loro i responsabili. La tesi è scomoda per i potenti o gli aspiranti tali di questo mondo.  E in questa mia intervista _ pubblicata oggi su QN _  l’inviato delle Nazioni Unite per la Siria, Staffan De Mistura, se ne fa portavoce. Complimenti per il coraggio.

demistura

«PER LA SIRIA non c’è più tempo. Il corpo di quel povero bambino, Aylan, ci ha detto che è passata la stagione delle conferenze e dei gruppi di lavoro. Dovremmo accogliere il suo messaggio e avere il coraggio della verità. Perchè un modo per fermare la guerra c’è: le chiavi della pace le hanno quattro Paesi». Dopo 45 anni di esperienza diplomatica e 19 conflitti l’inviato speciale dell’Onu per la Siria, Staffan De Mistura, parla fuori dai denti: «Il peggiore rischio per l’Onu in una tragedia come questa è essere marginale e nascondersi dietro alle parole. È quindi ora di dire quello che serve e non di essere poltically correct”.

Vuol dire che è giunta l’ora di un intervento militare più massiccio?
«Se l’intervento militare è contro lo Stato Islamico, come quello deciso dai francesi e dagli inglesi, è benvenuto, è una cosa sancita dall’Onu perchè siamo di fronte a un gruppo terrorista e più ampia è la coalizione che lo combatte, meglio è. Ma non dimentichiamo che la maggioranza di morti in Siria non è avvenuta a causa dell’Isis, ma della guerra civile tra governo e opposizione: lo Stato Islamico ha approfittato del conflitto, come un virus approfitta di un corpo indebolito. Bisogna quindi andare oltre, andare  alle radici della guerra siriana».

Che significa, concretamente?
«Significa che chi ha la capacità di togliere ossigeno a questa guerra lo deve fare. Il compromesso, l’accordo di pace diventa possibile quando non ci sono più armi e denaro che vengono dati all’una e all’altra parte ».

Chi può controllare o influenzare le parti in causa?
«Essenzialmente quattro Paesi: due sono Russia e Stati Uniti, che stanno parlando da mesi ma devono giungere urgentemente a conclusioni. E due sono Paesi che non si parlano, ma che devono parlarsi: l’Iran e l’Arabia Saudita. E giunto il momento che Riad e Teheran si confrontino sulla stabilità della regione e capiscano che nessuno può vincere questa guerra. Altrimenti l’Isis, che è già alle porte di Damasco, continuerà ad avanzare, il Paese si frammenterà in quattro o cinque cantoni che diventeranno un terribile mescolanza tra Beirut durante il conflitto, i Balcani e la Somalia innescando un epocale movimento di rifugiati. Milioni di rifugiati. Solo dalla zona di Latakia, che è sul mare, potrebbe partire un milione di profughi».

Il suo piano di pace è sempre sul tavolo?
«Certo. Il piano diceva di creare un gruppo di contatto tra i Paesi che contano per creare le condizioni per un cessate il fuoco e arrivare a un negoziato tra le parti. Ma è chiaro a tutti che le parti in causa non si siederanno al tavolo se non saranno  obbligati a farlo da chi può alimentare questo conflitto. E quindi l’urgenza è il gruppo di contatto. Diciamolo francamente, nella crisi siriana giocano un ruolo anche altri Paesi, dalla Turchia, alla Giordania, al Qatar, ma gli attori chiave sono quattro. Se Iran e Arabia Saudita, Usa e Russia si mettono d’accordo, il conflitto può essere risolto in un mese, con benefici effetti anche in Yemen e in Libano».