Che brutta estate, quanto sangue, quante vittime della furia omicida degli uomini… Ogni giorno i giornali ci consegnano le cronache di insospettabili che impugnano armi o mannaie e fanno fuori donne e bambini indifesi. E pensare che nei mesi scorsi ci eravamo illusi che la maggiore attenzione al problema femminicidio avesse limitato (non certo eliminato) l’emergenza. Ma purtroppo così non è. E non fa neppure caldo…
Andrea Bertasi, Milano 

«Un ragazzo d’oro», «uno zio premuroso», «una persona eccezionale». E poi subito dopo (inaspettato?) il «raptus». Perché il «raptus» è l’altra faccia del «bravo ragazzo»: buona parte degli otto assassini di donne e di bambini delle ultime settimane sono stati definiti dai parenti e dagli amici «persone perbene». Bravi ragazzi che reagiscono a un no, a un’esclusione che vivono come intollerabile. C’è in loro la cultura del possesso, quella di chi ritiene di poter disporre della vita di moglie-compagne-figli e di potersene liberare quando diventano un peso. Tanto – pensano – è roba mia, ne faccio quel che voglio. Il termine femminicidio, oggi entrato a far parte del parlare comune, suona male. Però serve. Definire in modo appropriato il delitto perpetrato contro una donna perché è donna, è necessario. Per capire e spiegare meglio i contesti, cercare di non banalizzare e non derubricare l’orrore in un raptus. E per smettere di chiamarli «bravi ragazzi».
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