È stato approvato lo ius soli sportivo. È sicuramente un’importante vittoria per chi in questi anni ha sostenuto che lo sport deve avere un ruolo di cittadinanza ed allargamento di diritti. Da adesso i bambini migranti potranno giocare e praticare sport da subito insieme agli italiani. Attenzione, però: ci sono retaggi culturali del passato e interessi economici che finora hanno fatto sì che lo sport più che favorire l’integrazione, sia stato un ambito dove ha vinto la discriminazione. Massimo Z, Milano

A NCHE se può sembrare paradossale, lo sport non è considerato un diritto (fatto salvo il gioco per i minorenni, come scritto nella Convenzione sui diritti dell’infanzia firmata a New York nel 1989). Ciò vuol dire che, nel momento stesso in cui un minorenne extracomunitario decide di tesserarsi per una società sportiva affiliata a qualche federazione, scopre che gli adempimenti burocratici sono maggiori rispetto al suo compagno di classe italiano. Quindi ha ragione il lettore: non si tratta di una svolta storica, ma di un piccolo passo. Perché permangono alcuni nei: primo fra tutti, il provvedimento interviene solo sui minori residenti in Italia almeno dal compimento dei dieci anni. E gli altri? Però un aspetto è certo e confortante: lo sport è capace di guardare oltre le differenze e può rappresentare, al pari della scuola, un luogo di crescita e di inclusione sociale, soprattutto per bambini e ragazzi condannati, altrimenti, a rimanere in panchina. [email protected]