Mettersi davanti all’obiettivo e rappresentarsi, raccontarsi al mondo virtuale e reale insieme, con un autoscatto su Facebook, Instagram e Twitter: non è un caso se la ‘parola dell’anno’, secondo i lessicografi della Oxford University, è «selfie», neologismo inglese a metà strada tra «self» (se stesso) e «selfish» (egoista, pieno di sé). Ha battuto il verbo «to twerk», usato per il ballo trash a sfondo erotico tra Miley Cyrus e Robin Thicke agli ultimi Mtv Video Music Awards di Brooklyn, e il «binge- watching», guardare una serie tv una puntata dopo l’altra fino a sfinirsi.

Il vocabolo era nato nel 2002, ma è esploso negli ultimi 12 mesi: la sua frequenza è aumentata circa 17.000 volte, rispetto ai 150 milioni di parole in uso nell’inglese corrente. Il merito, o la colpa, è dei social media, vetrina perfetta per l’enorme possibilità di amplificare il nostro ego. Basta pensare che solo a luglio su Instagram sono state postate 90 milioni di foto con l’hashtag (parola chiave) #me.

L’uomo si è autorappresentato fin dal Paleolitico per lasciare un traccia, per raccontare una storia personale. Ma il fenomeno «selfie» sfiora il narcisismo ossessivo. Che cosa c’è dietro l’impulso che spinge milioni di persone, soprattutto giovani, a mettersi in mostra continuamente? La voglia di apparire, la ricerca sui nuovi media di quei 15 minuti di celebrità a disposizione di tutti, come profetizzava Andy Warhol. Se non puoi essere una star della tv (sono migliaia i partecipanti alle selezioni per i reality) provi a diventare una star del web: fai vedere che fai, dove sei, con chi sei, quanto ti diverti, cosa mangi, quanto ti spogli.

Il lato oscuro è la fragilità che sta sotto l’ossessione di raccontarsi con un autoscatto. L’avere bisogno dell’approvazione e del consenso degli altri per costruire la propria identità. La paura di non essere visti, di rimanere soli e abbandonati dal branco, di sentirsi ignorati senza i riflettori accesi. Il rischio? Le luci della ribalta sul web durano meno di 15 minuti.