“Sono un africano trapiantato a Firenze da 35 anni e sono stanco di sentirmi dare del tu”
Vorrei segnalare un comportamento che può essere percepito come atto di “discriminazione sottile”: l’uso del “tu” da parte di dipendenti di uffici pubblici ed esercizi privati per rivolgersi ai cittadini provenienti dai paesi in via di sviluppo, riservando invece il “lei” ai cittadini italiani!
Seppur sia abitudine condivisa (divenuta ormai regola) dare ai giovani del “tu”, mi sembra giusto rispettarla, purché sia applicata a tutti i cittadini, poiché la regola ha un senso nel momento in cui riserva a tutti indiscriminatamente parità di trattamento. Questa prassi, però, non mi convince in quanto al sottoscritto, africano 48enne, viene dato del tu mentre a cittadini autoctoni più giovani viene riservato il lei.
Inoltre, quando l’utilizzo del “tu” non riveste connotati di occasionalità, ma arriva ad essere inflazionato ed abusato, venendo ad integrare una sorta di “prassi linguistica” nei confronti del cittadino straniero nero verso il quale ci si sente “autorizzati” ad un contatto e ad un tono di voce confidenziali, allora in tal caso non a torto possiamo ravvisare una chiara fattispecie di discriminazione razziale.
E’ certamente il caso di ricordare il diverso approccio culturale tenuto dai paesi di “Common Law” rispetto ai costumi dei paesi di “Civil Law”; in tale ottica, mentre per i primi l’utilizzo del “tu” (“you”) costituisce una costante senza alcuna variabile, per i secondi (fra i quali anche l’Italia), l’utilizzo di questo pronome personale assume un connotato di confidenzialità e familiarità che suona scortese, irriverente e maleducato.
Purtroppo la lista di luoghi in cui viene a verificarsi questo atteggiamento irriguardoso verso gli immigrati è lunga: presidi ASL, uffici postali, punti vendita di catene di supermercati, tabaccherie, negozi, alimentari, ristoranti, bar e gelaterie ecc… L’ultima volta in cui sono stato vittima di un caso simile è stato presso l’Ufficio “Casellario Giudiziale” della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Firenze. A seguito delle mie rimostranze, l’Ispettorato Nazionale della Funzione Pubblica con sede a Roma è dovuto intervenire sollecitando una giustificazione da parte dell’Ufficio delle Relazioni Pubbliche del Tribunale del capoluogo toscano e diramando una circolare affinché le norme di rispetto vengano attuate nei confronti di tutti gli utenti come previsto dall’art. 3 comma 5 e nell’art 12 del Codice di comportamento dei dipendenti pubblici (D.P.R. 16 aprile 2013 no. 62).
Ogni volta che una situazione del genere si verifica in un ufficio della pubblica amministrazione, il personale si arrampica sugli specchi, tirando in ballo le tre motivazioni seguenti:
1) facilitare la comunicazione con gli stranieri perché i cittadini di madrelingua inglese non sono pratici dell’uso del “lei” pensando che l’uso di questo pronome nei loro confronti sia riferito ad una donna assente;
2) è un sistema per fare amicizia;
3) i venditori ambulanti danno sempre del “tu”, pertanto diventa automatico per gli italiani rivolgersi agli immigrati che incontrano per la prima volta allo stesso modo!
Una cosa è certa: il bon ton suggerirebbe chi accoglie gli utenti a non usare, nel confronto dello sconosciuto, il “tu”, soprattutto negli uffici della pubblica amministrazione.
Per concludere, non è l’uso del tu che non è gradito, ma è l’utilizzo di questo pronome per interloquire esclusivamente con una parte della popolazione (i cittadini non comunitari) che non è giustificabile.
Thierry Avi (Cittadino originario della Costa d’Avorio residente in Toscana dal 1991)
Nulla da aggiungere, credo. Ha ragione: il rispetto comincia anche dal linguaggio. E grazie per averci fatto riflettere su comportamenti che noi tutti - diciamolo onestamente - mettiamo in atto meccanicamente, senza neanche accorgercene.