«LA VOSTRA banca deve fallire, il governo degli Stati Uniti pensa che sia meglio così»: il tono è formale, le parole diventano metalliche attraverso il viva voce con cui il consiglio di amministrazione della Lehman Brothers sta ascoltando nella serata di domenica 14 settembre 2008 la raccomandazione telefonica di Christopher Cox, presidente dell’organismo di vigilanza sui mercati finanziari Usa, la Sec.
Molti protestano in quel salone al 31esimo piano del palazzo newyorkese sulla Broadway, acquistato per 700 milioni di dollari pochi giorni dopo l’attacco dell’11 settembre: si lamenta l’amministratore delegato di Ibm, membro del consiglio. Inveisce contro il governo Henry Kaufman, economista, responsabile della gestione del rischio e soprannominato dottor Malaugurio. George Walker IV chiede di parlare col cugino, il presidente degli Stati Uniti George Bush, senza ottenere risposta. Testa tra le mani, incredulo, non muove un muscolo Richard Fuld Junion detto Dick, amministratore delegato di Lehman Brothers.

ANCHE LUI, il «gorilla», è sfinito dopo mesi di trattative frenetiche con banche americane, giapponesi, coreane e, sino a pochi minuti prima, con l’inglese Barclays. Londra ha bocciato l’operazione: «Non vogliamo importare il vostro cancro» sibilò il cancelliere dello Scacchiere del Regno Unito, sir Alistair Darling, al segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Henry Paulson, secondo la ricostruzione di Andrew Ross Sorkin nel suo «Too big to fail».
E’ crac, Fuld firma la richiesta di «Chapter 11» con cui si ufficializza la più grande bancarotta della storia americana: 613 miliardi di dollari di debiti bancari, 155 miliardi quelli obbligazionari, 639 miliardi di asset.

POCHE ORE dopo l’infarto finanziario colpì i mercati globali, lo tsunami dei licenziamenti spazzò via il posto di lavoro dei 26 mila dipendenti del gruppo: da quelli del gotha di Lehman, ai seimila europei e fino ai 140 italiani di Milano e Roma. La memoria collettiva verrà impressionata dalle immagini dei dipendenti con sguardo basso, umore a terra e scatoloni in mano, che lasciavano per sempre quel lavoro dorato e disperdevano la speranza di mantenere lo status che Wall Street regala ai dipendenti del suo Olimpo. Solo un anno prima i servizi finanziari rappresentavano il 40% del complesso degli utili realizzati dalle imprese a stelle e strisce. La finanza aveva distribuito 53 miliardi di dollari tra retribuzioni e bonus, ogni dipendente della star bancaria Goldman Sachs aveva ricevuto un assegno medio di 661 mila dollari e il numero uno, Lloyd Blankfein, aveva incassato 68 milioni. Lehman Brothers, quarta banca americana, c’era di diritto in quell’Olimpo dell’azzardo morale: secondo Fortune, il «gorilla» aveva raccolto in otto anni 482 milioni di dollari, a cui aggiungere bonus in contanti pari a 61 milioni. La sua determinazione e il suo proverbiale fiuto di trader fecero scalpore all’indomani dell’11 settembre quando convertì sale d’aspetto, ristoranti e tutte le 665 camere dello Sheraton di Manhattan in sale operative della Lehman Brothers che aveva perduto gli uffici, colpiti a morte nella torre nord del World Trade Center. Ma la sfrontatezza che sfiora l’arroganza alla fine affondò Fuld nelle trattative. E con lui crollò la banca.

QUEL CRAC  cambiò la mappa dei colossi bancari americani e i contraccolpi continuano a tormentare il mondo. Da quella notte l’Europa ha pagato con soldi dei contribuenti il conto di un contagio che ha fatto esplodere le debolezze dei Paesi più fragili: 505 miliardi di euro in aiuti a Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna. Il governatore della Banca centrale europea, Mario Draghi, ha inondato con più di mille miliardi di euro i mercati finanziari del vecchio continente, tra la fine del 2011 e il febbraio successivo. E si prepara all’eventualità di acquisti senza limiti di bond sovrani degli Stati in difficoltà. Ben Bernanke, presidente della Federal Reserve, ha comunicato giovedì scorso che immetterà 40 miliardi al mese finchè l’occupazione americana e il sistema produttivo nel suo complesso saranno tornati alla normalità.
Germania e Inghilterra hanno nazionalizzato banche e assicurato aiuti e impegni per 1.240 miliardi di euro. Stati Uniti e Fed hanno sostenuto i mercati finanziari e garantito salvataggi con una cifra che varia (non poco, secondo le stime) tra 5 mila e 7 mila miliardi di dollari. Ai quali aggiungere il crollo nei valori di immobiliari di abitazioni e imprese. E poi la piaga della disoccupazione: nei soli Paesi dell’Ocse si sono persi 15 milioni di posti di lavoro, 10 milioni in Cina. Migliaia di imprese hanno chiuso, il reddito delle famiglie si è assottigliato, il mondo è diventato più povero. Non quello degli ex padroni dell’universo finanziario: Jimmy Cayne portò al fallimento Bearn Sterns ma ora gioca a bridge e gode di un patrimonio di 500 milioni di dollari. Stanley O’Neal, numero uno di Merrill Lynch salvata da Bofa, si fece da parte con una buona uscita di 140 milioni. Angelo Mozilo si lasciò alle spalle il crac da 930 milioni della Contrywide (confezionava mutui subprime) e pagò 67 milioni di multa, ma può rallegrarsi per un patrimonio di 5 volte superiore. Come loro i manager di Aig, di Freddie e Fannie.

Appena due anni dopo l’esplodere della tempesta perfetta, i manager che erano riusciti a scamparla potevano di nuovo festeggiare: Jamie Dimon (Jp Morgan) ha guadagnato 20,8 milioni di dollari, Blankfein arriva a 18,6, si ferma a 16 milioni di dollari Bob Diamond, numero uno dell’inglese Barclays che si è dimesso poche settimane fa per lo scandalo Libor. «E’ finita» aveva detto Fuld alla moglie che lo guardava con gli occhi pieni di lacrime, giochicchiando con il Blackberry che non squillava più. Ma quattro anni dopo le sei sorelle bancarie superstiti sono diventate ancora più imponenti e controllano 10 trilioni di dollari di asset, il 39 per cento più di allora. Troppo grandi per fallire.