RICORDATE  il debito pubblico, nonostante le sottovalutazioni della campagna elettorale? Quella montagna di soldi  che pesa nelle nostre tasche si è assottigliata temporaneamente di qualche decina di miliardi, tornando sotto quota duemila dopo averla varcata più volte alla fine dello scorso anno. Ma scollinerà presto, questione di settimane. Perchè nonostante le promesse e gli ammiccamenti, poco è stato fatto per contenere l’aumento dei costi dello Stato e l’esplosione del debito. E poco se ne parla anche ad una manciata di giorni dal voto. Il tema è latitante. Molto più semplice illudere con il taglio delle tasse e il rilancio della crescita, come se le speranze italiane di risanamento non stiano affondando sotto il peso del debito e della spesa pubblica. Ricordate il piano Tremonti-Berlusconi per dismettere e alienare almeno cinque miliardi l’anno tra immobili pubblici a scarso rendimento e partecipazioni società? Abortito. Rammentate che lo stesso premier Monti, assieme al ministro Grilli, si era speso più volte con il progetto di contrazione dello stock di debito? La sola operazione conclusa è quella del passaggio di Sace, Simest e Fintecna alla Cassa depositi e prestiti, più un gioco di prestigio che una privatizzazione.

UN VECCHIO progetto dell’ultimo governo Berlusconi-Bossi, quello dei costi standard, sembrava ben impostato: definire quanto l’amministrazione pubblica deve pagare per un bene o un servizio, e poi adeguare progressivamente a una media credibile gli importi dei centri di spesa. Per evitare, ad esempio, che il costo regionale pro capite sfiori i 6 mila euro in Sicilia e sia di poco superiore ai duemila in Lombardia. Oppure per comprimere l’ipertrofia burocratica, che è piaga della Repubblica. Ma l’attuazione del cosiddetto federalismo è rimasto incagliato nei cassetti ministeriali, come molti dei provvedimenti applicativi delle dieci riforme del governo Monti.
In questo modo il monte del debito continua a crescere di svariate migliaia di euro al secondo e costa poco meno di 80 miliardi l’anno di spesa per interessi, spread permettendo, sui 1650 miliardi di titoli di Stato.

Gli economisti dell’Istituto Bruno Leoni hanno fatto un paio di calcoli: per la prossima legislatura non è utopistico pensare all’incasso di 271 miliardi dalle privatizzazioni, la metà dall’alienazione di immobili e il rimanente dalla cessione delle partecipazioni societarie. Farebbe risparmiare, calcolano, 11 miliardi l’anno di soli interessi. Libererebbe risorse. Rappresenterebbe una svolta rispetto agli ultimi vent’anni di politiche di bilancio che, incrementando spesa e debito, alimentano un’altra distorsione: il legame anomalo tra amministrazione pubblica e grande impresa privata, fatto di relazioni compiacenti più che di regole di mercato, di rendite di posizione più che di efficienza. Di appalti taroccati e non di gare competitive. Anche così esplode lo stock del debito, anche così si indebolisce il sistema industriale.