RICORDA una preghiera, ma è un incubo. Amen corner. Tradotto per i non golfisti è un trittico infernale di buche che segna il cuore del campo più blasonato del mondo, nel club più esclusivo ed inaccessibile del pianeta: l’Augusta National, nello Stato americano della Georgia d’antica ispirazione conservatrice. Laggiù si entra solo per cooptazione come fecero i miliardari Bill Gates e Warren Buffett. O Bill Clinton. Non erano ammesse donne come socio fino allo scorso anno, quando l’ex segretario di Stato Condoleezza Rice riuscì a forzare il blocco assieme alla potente guru finanziaria Darla Moore. Non furono mai accettati afroamericani, sino al 1990. Poi arrivò Tiger Woods.

E quest’anno, nell’ottantesimo compleanno del circolo,  ci è tornato da numero uno del mondo. Con l’obiettivo di portarsi a casa per la quinta volta il trofeo fatto a mano con 800 pezzi d’argento, di indossare la giacca verde del vincitore e di incassare un altro assegno da un milione 440 mila dollari. Perché l’Augusta Masters è questo: sport, spettacolo, gossip, una macchina da soldi grazie ai diritti televisivi e al merchandising. A dispetto della recessione internazionale di questi anni. Da solo Woods dà slancio al business del golf anche oggi, dopo aver perduto forma, titoli e simpatia per i disastri famigliari. Ma è un fenomeno e gli appassionati lo adorano. Abbina all’immenso talento la caparbietà della formichina che fatica ogni giorno: sveglia alle sette, due ore di palestra, otto ore di campo pratica per disciplinare il volo della palla e migliorare il movimento. A sfiorare la perfezione. Fino all’ossessione.
L’Augusta Masters è un totem che dona ad ogni vincitore montagne di soldi e il diritto inalienabile di partecipare alle edizioni successive, finché morte non lo separi. Sui green dell’anno 2013 la sfida a Woods è più che mai aperta: non ce la farà il giovanissimo fuoriclasse nordirlandese Rory McIlroy, che gli aveva strappato lo scettro di primo golfista del pianeta ma si è tenuto il primato degli sponsor personali (250 milioni in 10 anni, si racconta). E non ce l’hanno fatta gli alfieri italiani, Matteo Manassero e Francesco Molinari, a trepidare ancora accanto a re Tiger,  nell’Amen corner.