Padri e nonni di Scozia hanno affossato il sogno di figli e nipoti. O, almeno, viene letta così la netta sconfitta degli indipendentisti nel referendum di giovedì 18 settembre: all’indomani del voto, uno studio pubblicato da Times spiega come il 71 per cento dei 16enni e 17enni si sia schierato per il sì alla secessione di Edimburgo da Londra, controbilanciato dal 73 per cento degli over 65 anni contrario al “divorzio” che avrebbe spaccato la Gran Bretagna. Stupiscono i risultati delle Highlands, dove i nazionalisti erano stimati in forte maggioranza mentre hanno superato di un soffio il 47%, e quello della capitale, con i “no tanks” addirittura sopra il 60 per cento. Hanno certamente influito sul voto, incertissimo fino all’ultimo istante, la promessa last minut del premier inglese di concedere una maggiore autonomia alla Scozia e il timore del passaggio dalla sterlina all’euro, probabile se gli indipendentisti avessero vinto. Ma potrebbe essere stata decisiva la svolta, forse non sempre consapevole, impressa dai nazionalisti nelle giornate che hanno preceduto la chiamata alle urne: il fiero voto per l’indipendenza tanto agognata nei secoli si è trasformato nei chiassosi e coloriti cortei in rivendicazione di giustizia economica e rivoluzione sociale, con toni a volte tanto radicali da spaventare i ceti più moderati. Alla fine si è materializzato il controsorpasso che ha fatto piangere i nazionalisti scozzesi ma pure i manifestanti catalani, baschi, del Quebec e delle Fiandre, addirittura tedeschi della Baviera e italiani da Sardegna e Veneto, piombati su Edimburgo con il sogno di festeggiare la vittoria. E invece la festa per lo scampato pericolo la fa l’Europa, liberata (per ora) dal terrore del contagio ad altri paesi del “virus” secessionista.

 

 

 

CORNAMUSE, CORTEI E FIUMI DI BIRRA

LA NOTTE PIÚ LUNGA DI EDIMBURGO
L’indipendence day della Scozia corre sul baratro, con  attimi di panico e momenti di euforia. Porta con sè rebus politici, fibrillazioni economiche, orgoglio antico, ondate di birra e whisky che hanno travolto i pub della capitale Edimburgo, aperti tutta la notte in attesa della sentenza delle urne. Ancora nel pomeriggio di ieri l’incertezza faceva da padrona nel referendum sull’indipendenza: “No, non riesco a decidermi” ammette  Kilyanne, impiegata quarantenne appena uscita dal lavoro, a un passo dalla centralissima George Street.  “Ora entro al seggio e spero nell’ispirazione. Il cuore dice yes”.

 

Da almeno una settimana i segnali di una rimonta nazionalista avevano rovesciato le previsioni che avevano illuso i contrari alla secessione e il premier inglese David Cameron. La stessa capitale, colta e raffinata, era parsa sorpresa dall’invasione del ruspante popolo indipendentista che si svelava nelle sue piazze giorno dopo giorno, all’avvicinarsi dell’appuntamento: banchetti lungo le strade, attivisti tra la gente, cortei che violavano il Royal Mile, la centralissima strada patrimonio dell’umanità per l’Unesco, e manifestazioni colorate di bianco e blu davanti al  parlamento scozzese, giudicato il più moderno e innovativo d’Europa per la struttura e la efficienza energetica. Tra cori alcolici e  fischi. Tamburi, trombe e cornamuse rock. Comizi improvvisati, improbabili  highlander, bimbi avvolti nelle bandiere. Fra turisti curiosi  e signore del tea all’inglese indispettite da tanto furore nazionalista.

 

“Il giorno del destino” titolava ieri a tutta pagina lo Scotsman, giornale della capitale. E così, sofferto e imprevedibile, il voto per il divorzio tra Edimburgo e Londra ha inchiodato al televisore l’intero paese fino a stamattina, dentro e fuori dai pub. ” Senti, qual è il senso dell’avere due parlamenti, basta quello scozzese” azzarda Gerard, un ragazzone alticcio dagli occhi blu velati dai boccali di birra.  La sua personale guerra d’indipendenza sembra già vinta, il voto gli pare scontato e non lo toccano le delicate trattative con le quali i due Stati ex uniti, se vinceranno i sì, dovranno sciogliere i molti nodi della secessione, nei prossimi due anni. Oppure, in caso di successo dei no, il travagliato avvio delle riforme promesse alla vigilia del voto.

 

” Yes, Yes, Yes, basta con l’Inghilterra delle tasse, padrona a casa nostra” urla Michael assieme a un folkloristico gruppetto di nazionalisti,  tra le vie della città nuova.” La nostra terra è ricca, da soli vivremo in modo più dignitoso e migliore” è la loro speranza. Non sarà così semplice, in ogni caso: le principali case d’affari preconizzano tempi duri per l’economia Made in Scotland, se prevalessero i secessionisti. Le banche minacciano di trasferire le loro sedi nella capitale inglese. Rbs, la principale, venne salvata dalla Banca centrale inglese dopo la crisi del 2008 e tuttora è nazionalizzata. Il petrolio, millecinquecento miliardi di sterline nei giacimenti dei fondali del Mare del Nord, scottish al 91 per cento, potrebbe bruciare risorse nel cambiamento dei contratti di estrazione. Nemmeno il celebre whisky avrà vita facile se il suo export perderà la protezione dai dazi garantita dalla forza della Gran Bretagna. Altra grana la valuta, visto che il governatore Carney ha già escluso la sterlina possa restare in una Scozia divisa da Londra. “Ho votato no, credo nell’indipendenza della Scozia ma all’interno del Regno Unito” si scalda Sophie, sotto il cielo plumbeo della capitale. “La secessione sarebbe una vera follia”. Eppure c’è dell’altro. La sensazione che filtra dagli sguardi e dalle parole degli indipendentisti è che il confronto si sia caricato di significati diversi,  da quello politico di scontro tra laburisti scozzesi e conservatori inglesi, all’ambizione di una maggiore giustizia sociale e alla richiesta di più equa democrazia economica. Non solo: una parte degli scozzesi si sente discriminata e sottovalutata da Londra, con ferite nella dignità che  sembrano pesare più delle tasse di Westminster e del petrolio sottratto.

Nelle strade di Edimburgo rimbombano anche slogan del secolo scorso, riesumati dal ’68 francese. E dentro i cortei si sono ritrovati indipendentisti baschi, catalani, belgi, bretoni, del Quebec. Non potevano mancare i secessionisti del tricolore: ” La Scozia non è Inghilterra, la Sardegna non è Italia” si leggeva ieri mattina in uno striscione portato da un manipolo di sardi nel cuore della storica capitale. Era solo l’inizio del giorno più lungo e travagliato della Scozia degli ultimi decenni, 307 anni dopo la firma del trattato dell’Unione che portò alla riunificazione con il regno di Inghilterra.

(Qn, 19 settembre)

 

 

 

SCOZIA, SOGNI DI GLORIA

“L’INGHILTERRA CI TOGLIE DIGNITÀ”

 

“Nulla è più creativo di una nazione che nasce”: parola di James Bond, il celebre 007 impersonificato dallo scozzese Sean Connery, fede indipendentista e portafoglio al sicuro in lontani paradisi fiscali. All’incirca la metà dei suoi connazionali però non la pensa come lui, voterà contro il divorzio di Edimburgo da Londra e forse vincerà il referendum di giovedì prossimo: una sfida all’ultima scheda che si gioca casa per casa, in piazze e pub, dentro le fabbriche, in uffici e scuole. Meraviglia la “battaglia stradale” combattuta lungo le principali vie di comunicazione, affiancate da grappoli di grandi e inequivocabili cartelli: lo “yes” dei sostenitori dell’indipendenza della Scozia contro il  “no thanks” , il “no grazie” dei favorevoli al mantenimento dell’attuale matrimonio con Westminster.
“Sono stato a lungo incerto, alla fine mi sono convinto e voterò contro la scissione” confida Arthur,  agricoltore trentenne e proprietario di un paio di grandi aziende. “Meglio la sterlina dell’euro, meglio  la Gran Bretagna dell’Europa” ammette sicuro, con un sorriso accattivante. Coltiva grano e malto, come pure frutti di bosco, fragole e ortaggi grazie a serre sterminate che garantiscono produzioni impossibili a questa latitudine, fino a pochi anni fa. Con un bel fuori strada bianco controlla che i suoi cartelli pro Londra non vengano sabotati dai nazionalisti, senza grandi risultati per dire il vero. Perchè gli “Yes” spuntano come funghi anche sulle facciate delle case e dei negozi, mentre i “no” paiono più riservati soprattutto fuori dalle grandi città e lontani dalle tv made in England. “Da secoli ci battiamo per l’indipendenza, speriamo sia la volta buona” si augura Morgan nel suo B&B affacciato sul mare del nord a Crail, minuscolo paese di pescatori a dieci minuti d’auto da St. Andrews, cuore mondiale del golf. Chiama a raccolta dalla memoria i mille anni di sangue e guerre epiche con gli inglesi, gli eroi leggendari Wallace e Bruce,  il palazzo di Scone dove venivano incoronati i re scozzesi indipendenti che giuravano sulla pietra del destino. E poi la guerra civile e lo sconvolgimento delle Highlands, il secondo conflitto mondiale, gli eterni dissapori su tasse e tributi fino  agli scontri con Margaret Thatcher. Che gli ricorda molto l’Angela tedesca.

“I ricchi votano per il no, la povera gente è tutta per l’indipendenza che garantirebbe una vita migliore per tutti ” si sbilancia un arrabbiato portuale di Fraserburgh, sulla costa settentrionale dei Grampiani,  che accoglie nelle acque trasparenti e protette dai moli la flotta oceanica della pesca industriale e le foche attratte dal cibo facile in caduta dalle reti. Eduard, marinaio, ha parere opposto e indica i suoi colleghi orientali: “Sono arrivati da noi perché l’Europa non ha più lavoro, meglio restare con il Regno Unito”.  Insomma, la paura della Ue sembra spesso fare da scudo dovunque al desiderio di indipendenza. Un po’ meno a Nord, dove i nazionalisti sembrano in grande maggioranza: quassù a Inverness, capitale delle Highlands appollaiata a una manciata di paralleli sotto l’artico, il loro dominio pare schiacciante. Leader locali e  militanti volenterosi improvvisano banchetti e improbabili comizi, con pochi mezzi e molta volontà. Cornamuse e kilt, quasi scomparsi nella vita  quotidiana, si ritrovano proprio a una settimana dal voto e sfilano per le vie della cittadina evocando e amplificando  lo spirito dell’indipendenza, tra orgoglio di appartenenza e applausi della gente al passaggio dei colori del loro clan.
“Ho 26 anni e da 16 attendo questo referendum” sospira Douglas, impiegato con il viso da bravo ragazzo e la parlata sciolta, nel pub schierato con gli Yes e squassato da buona musica live.  “Londra ci sottrae ricchezza e dignità, ora tenta di ricattarci ma la Scozia giovedì  saprà liberarsi” urla per farsi largo tra le note assordanti. Ci crede. Proprio il voto giovanile (andranno al seggio i sedicenni, per la prima volta)  pare aver ribaltato i risultati  dell’ultimo sondaggio che vedono in testa i nazionalisti nelle terre dei cento castelli integri o rattoppati, di leggende e fantasmi, whisky e salmone, tra paesaggi mozzafiato e piattaforme petrolifere, aquile reali e delfini, orche giganti e pulcinelle  di mare, tra  palloni da rugby, palle da golf e pale eoliche da risparmio energetico. Ma piccolo e indipendente è davvero una soluzione per lo Stato in un pianeta dominato da giganti economici e finanziari? Nazionalisti e “better together”  (meglio insieme al Regno Unito) hanno comune molti  slogan e chiamano i cittadini al voto “non per paura ma per speranza, non per il passato ma per il futuro, non per tradizione ma per le ambizioni”.  E riflettono su un antico termine gaelico, Alba. Che significa Scozia. 
(Qn, 14 settembre)
SCOZIA, ORO NERO E INCUBI FINANZIARI
L’INDIPENDENZA DIVIDE GLI HIGHLANDER
Spezzata a metà, come l’indole del paese: 51% per l’indipendenza, il resto con il governo di Londra. Con una rimonta degna del vecchio e celebre Celtic Glasgow, la Scozia dei nazionalisti  accarezza di nuovo il sogno secolare di staccarsi dall’Inghilterra e fiuta l’affare da oltre mille  miliardi di sterline: è quello del petrolio racchiuso nei fondali del Mare del Nord, l’oro nero degli highlander, il tesoro che porterebbe 500 sterline l’anno di maggiori guadagni per ciascuno dei 4 milioni e duecentomila elettori, sedicenni compresi, che si preparano a votare il referendum per l’indipendenza, giovedì prossimo. È attorno ai mille rivoli del tesoro degli abissi che si combatte nei aspetti  più materiali la sfida dell’orgoglio nazionalista e della resistenza filo-inglese.
Ma l’antica Caledonia uscita dai sondaggi mostra  un risultato schizofrenico e molti nodi da sciogliere, riflette l’anima ancestrale del Nord contrapposta a quella del Sud arricchito dalla rivoluzione industriale e decaduto nel secondo dopoguerra, puntualizza  l’intenzione nazionalista di Glasgow e le promesse di stabilità della elitaria Edimburgo: proprio il degrado della capitale industriale rischia di pesare come un macigno  sul consenso dei “Better together”, i “sempre uniti” favorevoli allo status quo col Regno Unito. Glasgow ha mortalità molto superiore a quella delle altre città scozzesi, soffre la cattiva qualità droga, l’alcol, la povertà: da regina incontrastata dell’industria è finita Cenerentola degli standard esistenziali. La volontà di riscatto è palpabile quanto il desiderio di cambiamento, l’indipendenza è vista come la lampada di Aladino.
La grande speranza è dunque adagiata sotto le acque profonde del Mare del Nord e sullo sfruttamento energetico delle grandi pale eoliche, di correnti e maree. Certo, la Scozia non è paese povero con gli oltre 36 mila dollari pro-capite all’anno (più dell’Italia): l’industria del whisky è una macchina di ricchezza con le distillerie (più di cento, soprattutto nel nord) che producono un miliardo di bottiglie l’anno ed un export da quattro miliardi di sterline. Le istituzioni finanziarie (celebre il fondo delle vedove scozzesi o quello di Aberdeen) racimolano più di 500 miliardi di risparmi e il turismo è consolidato fra golf, splendori naturali e dimore storiche. Com’è rinomato il business delle lane di tweed, shetland, cashmere.
L’ambizione indipendentista ha la sua città emblema in Aberdeen, capitale europea del petrolio  portatrice dell’ambizione di un nuovo modello di sviluppo basato sull’energia, tradizionale o rinnovabile: in quarant’anni, dopo la scoperta dell’oro nero, la città ha moltiplicato i suoi abitanti (220 mila) e il suo reddito (più che doppio rispetto alla media nazionale per i dipendenti delle compagnie petrolifere) grazie ai 40 miliardi di barili estratti. Non solo: per “pescare” petrolio a tre chilometri e 600 metri di profondità servono tecnologie robotiche avanzatissime e personale superspecializzato (e superpagato). Così Aberdeen da città di pesca della splendida (nonostante i pozzi e le centrali) costa orientale è diventata icona scottish, passe-partout per trasformare la nazione degli eroi highlander  in una nuova Norvegia, appoggiata sui 100 miliardi d’investimenti petroliferi nel Mare del Nord e sui millecinquecento miliardi di sterline di greggio ancora da estrarre. Londra è preoccupata, il “panic tartan” generato sul mercato finanziario della City dall’ultimo sondaggio ha fatto rotolare giù la sterlina. Ed è un segnale. Lo stesso Fondo monetario si mostra perplesso: “Se la Scozia sarà indipendente, non solo Londra ma tutta l’Europa avrà un contraccolpo negativo e bisognerà vedere su quali basi la nuova leadership scioglierà il nodo della moneta e del commercio».
Neanche Edimburgo però può dormire sonni tranquilli, con il pericolo che la marea indipendentista sbatta sugli scogli dell’economia e della politica: il primo rebus si chiama sterlina, che gli scozzesi vorrebbero mantenere per “affetto e per convenienza”, visto che il riconoscimento nell’Europa della neo-nazione indipendente potrebbe portare con sé euro e Merkel, amabilmente non proprio desiderati. Deciderà in primo luogo Londra, ma da tempo gli avvertimenti erano chiari: “Niente Regno Unito, addio sterlina”. Senza Bank of England anche il sistema finanziario rischierebbe  di indebolirsi: la crisi del 2008 portò Royal Bank of Scotland a perdite pluri-miliardarie e alla nazionalizzazione, difficilmente digeribile da uno Stato meno robusto. Proprio Rbs ha manifestato la possibilitá di trasferire la sua sede a Londra, in caso di vittoria dei sì: un bel guaio, assieme a una ipotetica fuga di capitali che sarebbe già in atto. E ancora Londra potrebbe ritirare investimenti strategici in strutture militari a Glasgow, dove arrivano le commesse dell’esercito di Sua maestà, e negli stessi campi petroliferi. Ma la fede nel futuro è scritta su un volantino nazionalista che circola nel nord del paese: “Spesso la storia percorre vie tortuose per svelare il suo disegno – si legge – ma vorremmo che i nostri figli potessero vivere, tra un paio di decenni, negli Stati Uniti d’Europa. Con la Scozia indipendente tra i paesi federati”.
(Qn, 13 settembre)