­­­­Non c’è dubbio che il debito pubblico sia il problema più devastante per l’economia italiana, la cui affidabilità è a un passo dal livello di spazzatura dopo il declassamento dell’agenzia di rating Standard & Poor’s. Perché il debito tricolore è specie una palude ricoperta da più di duemila cento miliardi di euro nella quale rischiano di affogare gli slanci del paese: ogni anno costa un’ottantina di miliardi che potrebbero venir impiegati in modo più proficuo nella riduzione delle tasse, negli investimenti per rendere il paese sicuro e moderno, nel sostegno alle persone più colpite da sette anni di crisi pressoché ininterrotta. Non è così nonostante le promesse, i progetti mai realizzati, i commissari straordinari e i ministri supertecnici che sono alternati al dicastero dell’Economia ormai da un paio di decenni. E da domani quello stesso debito potrebbe costare qualche miliardo in più se è vera la teoria secondo la quale per il taglio di un notch di rating si paga in media lo 0,2% in più sugli interessi dei titoli di Stato, per i quali l’Italia ha sborsato lo scorso anno il 4,8% della ricchezza prodotta, il doppio di quanto speso per investimenti: un record in Europa, battuto solo dal Portogallo.

Da Berlusconi-Tremonti e fino a Renzi-Padoan, passando per Monti-Grilli e Letta-Saccomanni, si sono sbandierati piani e proclami per alleggerire il moloch degli impegni finanziari e monetizzare la parte “aggredibile” del patrimonio dello Stato, cioè 400 miliardi tra immobili pubblici non a reddito o addirittura a rischio di degrado, enti inutili o aziende in perdita fatte su misura per politici riciclati, partecipazioni non sempre strategiche in aziende quotate, imprese da privatizzare in toto o in parte. Le difficoltà tecniche e le cattive condizioni di mercato funzionano però da alibi per ritardi e slittamenti, che in realtà coprono incapacità, inconcludenza e cattiva fede non solo della politica. Unica, vera perplessità s’innesca con il timore che gli eventuali incassi di privatizzazioni e dismissioni siano poi sperperati in pochi anni da una spesa pubblica dissennata e mai sotto controllo: sarebbe un’ennesima beffa.

Oggi molti osservatori internazionali mostrano stupore un po’ ipocrita nel commentare il giudizio di una S&P che, non sempre tempestiva nel segnalare la caduta di credibilità delle istituzioni finanziarie a stelle e strisce, avrebbe tagliato a sorpresa il rating sull’Italia per l’ampliarsi del debito e lo svanire della crescita, pur citando gli sforzi sulle riforme. Ma proprio i risultati deludenti consigliano fatti concreti e nuove priorità.