Il mantra è immutabile, nemmeno le pressioni più recenti l’hanno scalfito: in corsa per il Quirinale? “No grazie, non voglio essere un politico”. Mario Draghi continua a scandire il gran rifiuto, con quel tono mite ma deciso. “Il mio mandato alla Banca centrale europea scade nel 2019” taglia corto nell’intervista a un quotidiano tedesco che riecheggia anche la speranza di Angela Merkel di vederlo al vertice del Colle, per la stima che la cancelliera ripone in lui e per l’opportunità di scongiurare ulteriori turbolenze con il leader di Bundesbank, Jens Weidmann.

Sembra così allontanarsi l’ipotesi di una candidatura di Draghi al Quirinale, sostenuta in patria da un fronte bipartisan che vorrebbe riproporre l’esperienza Ciampi, e ben vista all’estero grazie al prestigio personale dell’uomo e ai contatti con i gruppi che contano. Solo negli ultimi giorni il premier Renzi e lo stesso presidente Napolitano paiono aver sfilato dai nomi graditi tutti quelli dei tecnici. In ogni caso, il rifiuto del banchiere sembra invalicabile. Perché il presidente Bce è fatto così: “Straordinariamente intelligente e dolce, molto serio e dotato di grande capacità di lavoro, non interessato alla politica” secondo l’affettuosa descrizione di Serena Modigliani, moglie del premio Nobel dell’economia che lo aveva avuto come studente al Mit di Boston.

Questo tratto gentile e prudente non deve tuttavia trarre in inganno: ne sanno qualcosa i banchieri centrali che stanno toccando con mano la sua determinazione nel sostegno della moneta unica. “Faremo tutto quanto necessario per salvare l’euro e, credetemi, questo basterà” disse nell’ormai celebre incontro del luglio 2012 che strapazzò la speculazione finanziaria. Lo conoscono bene anche gli osservatori internazionali, soprattutto quei tedeschi che lo avevano irriso nella candidatura al vertice dell’Eurotower, definendolo un “mangia spaghetti nel paese dove l’inflazione è come il sugo nella pasta”.

Ma lui non è uno che molla, l’insegnamento gesuita l’ha forgiato in profondità fin da studente quando, solidale, passava i compiti in classe. Universitario eccellente fu il primo italiano a ottenere il dottorato al Mit di Boston. Da banchiere centrale trasferì subito il suo patrimonio privato a un trust, per evitare il conflitto d’interesse. Da studioso approfondì il rapporto tra etica, politica ed economia, mutuato dall’Aristotele del liceo e messo alle strette dalla finanza derivata dell’esperienza all’americana Goldman Sachs. E come nonno da 378.240 euro di retribuzione annua, ottavo uomo più potente al mondo, rimane volentieri con la nipotina e non si nasconde nel fare la spesa al supermercato. Ironico e scaramantico, come Governatore di Bankitalia fece subito staccare il dipinto “catastrofico” che dominava sulla sua scrivania, ereditato dal predecessore Antonio Fazio: raffigurava San Sebastiano trafitto dalle frecce.

A 44 anni, nel 1991, divenne direttore generale del Tesoro: vi rimase dieci anni con 10 governi diversi, protagonista di quella stagione decisiva e controversa delle privatizzazioni che fu preceduta dal leggendario incontro dello stesso Draghi con la comunità finanziaria internazionale sul “Britannia”, il panfilo della regina Elisabetta. Con lui regista lo Stato cedette fra l’altro Telecom, Eni, Enel, banche, facendo scendere il debito pubblico di dieci punti dal 125% del Pil, racimolando 182 mila miliardi delle vecchie lire. Una miseria a giudizio di chi comunque considerò quel decennio un’epoca dannata di svendita dei gioielli nazionali e una pessima operazione politica. Da allora e sino al mese scorso con l’ennesimo richiamo ai governi il “super-Mario” tecnocrate e civil servant ha spesso sconfinato in quel terreno della politica che forse non gli piace ma che, alla fine, non gli è mai stato estraneo.