IDOMENI (Grecia) – Un altro allarme, questa volta sanitario. Pidocchi, scabbia, gastroenterite e anche epatite rischiano di trasformarsi in un nuovo incubo nel campo profughi di Idomeni, già tormentato da scontri, da episodi di violenza e degrado nonostante il lavoro delle associazioni umanitarie: volantini in quattro lingue, compresi arabo e farsi, continuano a mettere in guardia gli oltre diecimila migranti ancora accampati sui binari dell’ultima stazione greca prima del confine con la Macedonia, che ha alzato il muro e fa da scoglio all’ondata di persone in fuga dalle guerre con il sogno di una vita migliore in Europa. L’epidemia potrebbe esplodere, l’appello ai migranti li invita ad accettare il trasferimento in strutture di accoglienza più consone, allestite anche in siti militari dismessi. Ma sono pochi quelli che salgono sui pullman organizzati da autorità e associazioni, coordianto dall’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati: “Viviamo come bestie, però qui ci rimane ancora un briciolo di speranza che la Macedonia alla fine ceda e riapra il confine” confessa Hassad, siriano di Aleppo. E confida il suo terrore: “Se andiamo nei campi ci rispediscono all’inferno“.

Così l’emergenza si cronicizza nella comunità greca che accoglie l’accampamento e ha visto passare un milione di migranti lo scorso anno: ora è pure lei nella trappola del filo spinato macedone. La tensione è evidente, la frustrazione si trasforma in risentimento, la solidarietà si allenta, la convivenza diventa difficile. La sommossa sembra poter esplodere in ogni momento.

Le condizioni di vita, paragonate all’inferno di Siria o Iraq, sono quelle di un devastante purgatorio dove l’aria è spesso pesante e acre, raschia la gola e brucia gli occhi. Per scaldarsi e cuocere da mangiare finisce tra le fiamme un po’ di tutto: plastica, cartone, coperte, traversine di rotaie, sedili dei convogli rottamati. Anche legna. I bambini, davvero moltissimi, giocano nel fango e cercano serpenti, gli uomini più audaci tentano commerci non sempre raccomandabili, i meno giovani provano a ricostruire le abitudini dei loro giorni più sereni nelle tende tra i binari, dentro i vagoni, nelle tazze di tè sulle pensiline ferroviarie. Le stanze della vecchia stazione, sono divenute off limits per gli “stranieri”: tagliano la gola, avvertono, anche se non è mai accaduto nulla.

Duecento metri di binari occupati dai migranti, che prima o poi la Grecia tenterà di liberare per riaprire una delle linee ferroviarie più importanti del paese, sono ormai il simbolo di una umanità sofferente e dell’inconcludenza della vecchia Europa, come sempre incapace di decidere. Ridicola pure nei confronti: in Libano i profughi siriani sono un milione su cinque milioni di abitanti, in Giordania sono 800 mila. In Grecia 50 mila, un quinto dei quali proprio a Idomeni.

Adesso nella conca delle lacrime, segnata nei secoli da continue guerre tra greci, ottomani e macedoni, l’ansia dei profughi è quella di venire dimenticati e abbandonati. Amina arrivò da Kobane e mostra ora con orgoglio la bimba nata in tenda 15 giorni prima: “Aiutateci, siete ormai la nostra unica speranza”. Marcos e la moglie Lamya, incinta di cinque mesi, vive uno scompartimento come casa, nella carrozza letto dismessa e abitata davanti a ciò che rimane della stazione. “Restiamo e aspettiamo, che altro possiamo fare?”. Mohamed è un giovane pakistano che ha lavorato otto anni in Spagna ed è tornato nel suo paese per la morte del padre: scaduti i visti, è intrappolato a Idomeni nel viaggio di ritorno mai concluso. Abita una tenda. “No, la Macedonia non aprirà le frontiere ma non ho alternative al rimanere. E provo a sognare”. Immagina una famiglia, il lavoro, una casa e magari un’auto.

L’auspicio di una vita migliore si legge nei disegni di due sorelline, attaccati all’interno del vagone merci spettrale ma divenuto la loro casa: “Pace” è il messaggio molto più adulto di loro. Potente. Inascoltato. Tra i 156 abitanti del paesino che tocca la Macedonia, 150 chilometri a nord di Salonicco, c’è una giovane madre che apre le porte alle mamme che hanno bisogno di aiuto: come segno di riconoscimento della sua abitazione ha appeso bambole, orsacchiotti e peluche al filo della biancheria, tra le finestre. Poco lontano una nonna offre una doccia e un tè a chi glielo chiede, un po’ come l’anziana donna di Lesbo che diede il biberon al neonato appena sceso dal gommone con la madre, gesto che le é valso la candidatura al Nobel. Tra tende e rotaie c’è pure chi offre, con dolcezza, un po’ di cibo: “Chi divide un pasto con noi porta nel mondo la nostra speranza”.
Le immagini in http://www.quotidiano.net/foto/migranti-idomeni-1.2090632