In un passaggio senza fronzoli né veli retorici il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, ha reso evidente l’abisso tra le élite che governano l’Europa e i cittadini che subiscono le decisioni a volte drammatiche: di fronte al parlamento comunitario gli era stato chiesto se fosse possibile, in qualche modo, far recuperare una parte dei risparmi perduti da migliaia di cittadini greci che, nel 2012, avevano subito la ristrutturazione del debito di Atene e il taglio dei valore dei titoli dello Stato. Immaginate: è come se l’Italia non onorasse le scadenze di Bot o Btp, uno tsunami di portata infinitamente superiore al mancato rimborso degli obbligazionisti delle quattro banche italiane fallite che purtroppo conosciamo bene.

Con tono gelido, Draghi ha risposto picche. Trattati e accordi non prevedono ristori. Proprio non esiste ipotesi di un quantitative easing for people, di acquisti di titoli per alleviare le sofferenze dei risparmiatori traditi. E allora Draghi si ritrova nello scomodo ruolo di collante di un’Europa da sempre incapace di decidere, ma oggi squassata dalla Brexit e timorosa della Frexit, minacciata dagli spread e dal protezionismo latente, sotto scacco della Germania che culla progetti di Ue a due velocità: quella dei paesi forti del Nord e l’altra dei periferici, sempre più fragile e marginale.

Non fa più miracoli nemmeno quel concetto con il quale il presidente della Bce risollevò le sorti dell’Europa nell’estate del 2012: “L’euro è irreversibile”, detto e ripetuto al parlamento comunitario, è ora accolto nell’assoluta indifferenza delle Borse. La politica monetaria non dà soluzioni, offre solo un po’ di tempo ai governi per tentare di risolvere i problemi: ma quando si barrica nel linguaggio della tecnocrazia, rischia di diventare irritante.