Stesse iniziali, Marco Belinelli e Mario Balotelli – e volendo sfidare la cabala lo stesso numero di lettere, cinque per il nome e nove per il cognome -, età tutto sommato simile, perché Marco è un  1986 e Mario un 1990. Eppure tra i due c’è un abisso, anzi, forse qualcosa di più. La conferma impietosa di quanto MB3 (Marco Belinelli e il suo numero di maglia agli Spurs) sia lontano anni luce dal numero 45 del Milan (per quanto tempo ancora?) e centravanti della Nazionale l’abbiamo avuta ieri.

Confronto impietoso proposto dalla Rai. Marco, fresco vincitore del titolo Nba, a commentare la partita, al fianco di Marco Marzocchi. Marco indossa persino una maglia politicamente scorretta (don’t forget your balls) ma tremendamente efficace, che scava un ulteriore solco. Marco, come commentatore (una piacevole scoperta, tra l’altro, mai banale, al contrario, pungente e preciso), si parli di calcio, di basket o di sport in generale, a sottolineare l’importanza della squadra, del gruppo, della divisione dei ruoli. Dello spirito di sacrificio. L’altro, apparentemente taciturno sul campo a inneggiare, virtualmente, a uno sport per solisti. Un calcio che, nel terzo millennio, può andare bene per Messi, al massimo per Cristiano Ronaldo, non per Mario Balotelli.  In ogni caso, nel calcio, come negli altri sport, vince lo spirito di gruppo, vincono le motivazioni. Bastasse il talento, almeno quello sulla carta, Marco Belinelli e i suoi Spurs sarebbero stati spazzati via dagli Heat di LeBron James. Il campo, invece, una volta di più, dà un altro verdetto (per fortuna). Vince chi è più organizzato, vince chi ha più voglia, vince chi ha più spirito di sacrificio, vince chi è capace di sbattersi, sempre e comunque. Marco Belinelli e Mario Balotelli, così vicini e così lontani. Anche nelle t-shirt. Marco indossa quella che ricorda l’importanza degli attributi e sorride al pensiero dei 15mila dollari di multa subìti un anno fa quando, in maglia Bulls, realizzò un canestro di importanza pazzesca e dopo, con un gesto esplicito, mimò quanto coraggio avesse avuto per un tiro del genere. Ma erano attributi messi al servizio dei compagni, del gruppo. Come è successo negli Spurs. Mario al massimo indossa la maglia “Why Always Me?”. Perché pensa solo a Balotelli, non alla Nazionale italiana, non al Milan.

Marco Belinelli e Mario Balotelli, così vicini. Così lontani. Noi teniamo Marco Belinelli tutta la vita. E, grazie a lui, festeggiamo la prima volta di un italiano sul tetto del mondo della pallacanestro. E grazie a Mario? Mah, magari al ritorno dal Brasile indosserà la celebre maglietta “Why Always Me?”. E festeggerà. Da solista in perfetta solitudine.