Il segno del comando ce l’ha lui, Marco Belinelli da San Giovanni in Persiceto. Il segno del comando è un anello (forse un po’ troppo vistoso per il nostro gusto europeo) che ha un significato straordinario. Già, perché Marco è il primo italiano di tutti i tempi. Qualcosa che nessuno potrà mai togliergli.
Gliel’hanno consegnato stanotte e lui, nella partita che ha visto gli Spurs vincere in volata con Dallas, ha poi costruito una partita giudiziosa e produttiva, 15 punti e 30 minuti. Quarto per minutaggio nelle rotazioni degli Spurs, solo dietro a Green, Parker e Diaw, ma davanti a Duncan e Ginobili. E’ vero che mancavano Leonard e Splitter (senza dimenticare il lungodegente Mills) è che non sempre Marco resterà in campo per trenta minuti, ma l’inizio è davvero scoppiettante.
Perché richiamare il segno del comando (chi ricorda lo sceneggiato dei primi anni Settanta con Ugo Pagliai, Carla Gravina, la ragazza della gomma del ponte e Rossella Falk?) in questa occasione?
Perché nonostante Marco abbia vinto con pieno merito, pochi mesi fa, c’è ancora chi mette in dubbio il suo ruolo e la sua importanza all’interno degli Spurs.
“Non giocava mai”, “Non segnava mai”, le obiezioni (più che opinabili) dei censori di Marco riferite non tanto alla prima stagione (ormai una vita fa) in maglia Golden State, ma a pochi mesi or sono, con la ormai celebre 3 degli Speroni. Le opinioni di chiunque, purché espresse in modo corretto, sono sempre rispettabili. Ma le opinioni e le obiezioni si scontrano con i numeri. Marco un anno fa è rimasto in campo per 25 minuti (di media) segnando (sempre di media) 11 punti. Vi sembrano pochi?
Non sarà LeBron James, non sarà uno dei Big Three. Ma là, nel contesto degli Spurs, nella Nba, Marco non ci sta bene, ci sta benissimo. E a chi dice che, nei playoff ha giocato meno, cosa rispondiamo? Che è vero. Che il minutaggio rispetto alla regular season è calato. Ma che, storia alla mano, Gregg Popovich (non uno qualunque, oggi il Migliore) si è sempre affidato ai suoi pretoriani nella fase più calde della stagione (e per lui, in quel contesto, Marco era come un debuttante). E negli ultimi playoff, ricordando come era finita – dolorosamente – la finale 2013 questo valeva ancora di più. Per offrire una chance di riscatto a chi, dodici mesi prima, aveva pianto lacrime amare.
Minutaggio calato. Ma comunque fondamentale. Come quei tre punti segnati in gara-tre quando, paradossalmente, in caso di rimonta (riuscita) Heat la serie avrebbe potuto prendere un indirizzo diverso.
“Big shoot”, disse di lui Gregg Popovich. E poi, se i titoli hanno un solo protagonista assoluto hanno comunque tanti attori principali. Belinelli tra questi. Ci viene in mente la finale scudetto del 1998, quella decisa dal tiro da quattro di Danilovic. Celebrazioni (giuste per altro) al talento di Danilovic. Ma Sasha non avrebbe potuto scoccare quel tiro decisivo se la carretta, tanto in gara-quattro quanto in gara-cinque, non l’avesse tirata un certo Sandrino Abbio. E in casa Spurs, per mantenere fresco Ginobili, la carretta l’ha tirata anche Marco. Basta dare un’occhiata alle cifre, senza pregiudizi, per rendersene conto.