“Giovane, dove stai andando?”. Mancano pochi minuti alle 2, sono appena tornato a casa. Sto cercando di rovistare, nell’album dei ricordi della mia memoria, il primo contatto, il primo approccio con Amato Andalò. Il signore del PalaDozza per un quarto di secolo si è spento ieri pomeriggio, a tre mesi di distanza dalla sua Liliana. Torno indietro nel tempo, viaggiando sulla mia De Lorean, sono alla metà degli anni Settanta. Io ho 11-12 anni, sono alto un metro e un barattolo, ma impazzisco per la pallacanestro. E il tempio dei canestri è in piazza Azzarita, al Madison come lo chiamiamo noi che quello vero, quello di New York tanto per intenderci, non lo abbiamo visto nemmeno in cartolina.
Il capo assoluto di quell’impianto che sta a due passi dalla mia scuola media, le Gandino, è Amato Andalò. Inconfondibile, perché ha sempre un grembiulone nero. E nelle tasche ha più chiavi di San Pietro, perché provate voi a mettere i lucchetti a ogni porta del PalaDozza. C’è da diventare matti. Tutti, tranne lui, Amato Andalò.
Sono uno di quelli che frequentano i corsi di basket al PalaDozza, sognando di diventare un campione. Magari illudendosi di arrivare a schiacciare. “Giovane, dove stai andando?”.
Ecco la voce di Amato che rimbomba nella mia mente. E con la voce mi rendo conto di un aspetto. Che ho celebrato (giustamente) l’icona Andalò, perché è stato il testimone oculare di alcune delle pagine più belle ed entusiasmanti dello sport bolognese. Ma celebrandone la grandezza sportiva, rischia, forse, di trascurare l’uomo. Il padre di famiglia. Quello che ha insegnato, con il suo grembiulone nero e, apparentemente, con il suo carattere burbero, a comportarsi in un certo modo a generazioni di bolognesi. Mi spiego: Andalò non era il proprietario dell’impianto. Perché il proprietario era il Comune. E oggi – quante volte succede? – quando il proprietario è un altro, si tende quasi a fregarsene. Tutti o quasi. Lui, Amato Andalò, no. Mai. Ha sempre trattato il PalaDozza, che era di tutti, come se fosse suo. Ma, proprio amando e servendo l’impianto, come si farebbe con un figlio – Amato e Liliana ne hanno avuti quattro, Francesco, Emma, Roberto e Luciano -, il signore del PalaDozza ce lo ha sempre messo a disposizione. Con cura e passione. Quasi un pezzetto di quell’impianto fosse veramente roba nostra.
Il rispetto per le cose e per il prossimo. Il rispetto per la cosa pubblica. Ecco qualcosa di Amato che ci resterà dentro, per sempre, come quel primo approccio, “Giovane, dove stai andando?”.
E poi, ripensando ad Amato, mi viene in mente quanto, in fondo, sia piccolo il mondo. All’ora, parlo sempre degli anni Settanta, Amato mi appariva un gigante. E, con il grembiulone nero e per la voce tonante, quasi qualcuno da aver paura. Impressione, fugaci e fuggenti, di un ragazzino di 11-12 anni.
Ma, proprio perché il mondo è strano e, fondamentalmente piccolo, mi viene da sorridere. Perché il mondo è piccolo? Beh, perché Amato aveva un braccio destro (ovviamente sempre con grembiulone nero) che rispondeva al nome di Tonino Menozzi. E negli anni Settanta non avrei mai pensato che un giorno avrei sposato una ragazza di nome Maria Grazia, che di Tonino era la nipote.
Non avrei mai pensato, in quegli anni Settanta, che un giorno avrei avuto l’onore e il piacere non solo di intervistare Amato, ma di diventare amico di suo figlio Luciano. Ecco perché il sorriso, ripensando a quanto sia piccolo il mondo, lascia spazio anche a una piccola smorfia di dolore. Bologna ha perso un pezzo di storia, un mio amico sta piangendo il suo papà. E io, ancorché virtualmente, non posso che piangere al suo fianco.