Un colpo di fulmine, una folgorazione sulla via Emilia che ci portava al PalaDozza, quando ancora il Madison di piazza Azzarita non era stato intitolato al sindaco del dopoguerra. Jim McMillian, scomparso a 68 anni, apparteneva a una categoria speciale. Ai giocatori dei quali ti innamori, perché…
In realtà non ne conosco il motivo, perché non sempre ci sono spiegazioni logiche. A volte ci si innamora e basta. Dello sguardo di una donna, del suo sorriso. Oppure della sua voce flautata o ancora dal suo ancheggiare.
E McMillian? Beh, non ci si poteva che innamorare del Duca Nero perché lui era la pallacanestro. Era un concentrato, un clinic vivente, un gioiello splendente che, nell’autunno del 1979, decise di lasciare gli States per venire in Italia.
Aveva 31 anni, aveva già vinto un titolo Nba con i leggendari Los Angeles Lakers di Wilt Chamberlain e Jerry West e lo aveva vinto da protagonista. Poi altre esperienze negli States, nella Nba, fino alla scelta dell’Italia. La Virtus di Gianluigi Porelli e Terry Driscoll.
Aveva qualche chilo di troppo, Jimmone e un lato B che, visto la prima volta, non sembrava propriamente quello di un giocatore di pallacanestro.
Jimmone, subito ribattezzato il Duca Nero per il suo tratto nobile, non aveva solo un paio di chili in più. Aveva un’intelligenza fuori dal comune. Aveva, per di più, alcuni aspetti che lo rendevano unico, inimitabile.
Trentasette anni dopo averlo visto la prima volta e trentacinque dopo l’ultima, i ricordi si mescolano alle leggende. Le leggende alle favole. Difficile distinguere la realtà da una fantasia fin troppo spinta, perché Jim aveva alcuni aspetti che…
I polsini, per esempio, rigorosamente di spugna, rigorosamente bianchi. Gli coprivano interamente gli avambracci come, oggi, succede per chi ha i tatuaggi. Poi il suo sudare, copioso, fin dalla prima palla a due. Con i polsini usati più come asciugamani che per tenere protette le articolazioni. Poi i tiri. Jim infilava i primi tre dall’angolo, sempre. Poi ne sbagliava altri tre, quasi fosse un rituale e poi… Poi dava un saggio del suo talento, perché con quel suo incidere apparentemente flemmatico e quell’aria bonaria, riusciva comunque a trasformarsi nel più spietato dei marcatori. Con lui si divertivano poco tutti. Che si trattasse dell’ultimo dei panchinari o autentici assi dei canestri, da Morse a Dalipagic a Delibasic.
Jimmone era spietato: marcava tutti con la stessa intelligenza tattica. E, con l’ausilio della sua materia grigia, annientava l’avversario, cancellandolo dal campo.
I ricordi sono davvero tanti e pressanti. Come la richiesta di un amico, Luca Sancini. Amico e collega che, più di una volta, ha detto e ripetuto che, per coronare una rubrica che sul Carlino andava sotto il nome di “C’eravamo tanto amati”, avremmo dovuto chiudere il giro delle interviste con la storia di Jim.
Dopo Terry Driscoll e George Bucci, Mike Silvester e Carlos Mina, Carlos Raffaelli e Cuki Galilea, Kyle Macy e Massimo Antonelli, Gianni Bertolotti e Tom McMillen, avremmo dovuto scrivere la parola fine con lui. Con il Califfo. Con il Duca Nero. Con Jim McMillian.
Eppure, nonostante l’aiuto di chi ci aveva fornito dritte e suggerimenti per arrivare persino al senatore McMillen, non siamo mai riusciti nemmeno a sfiorare Jimmone. Non ce l’abbiamo fatta. Anche se, una chiacchierata con McMillian, come diceva l’amico Sancio, avrebbe avuto il valore di una medaglia conquistata sul campo.
Siamo arrivati tardi, Duca Nero, non siamo riusciti a raggiungerti. Da grande e straordinario maestro, anzi, professore della difesa sei riuscito a non farci segnare (perché intervistarti sarebbe stato un tiro da cinque o da sei, nemmeno da quattro).
La mancanza dell’intervista vanamente inseguita e mai realizzata, però, non cambia nulla. Perché il tuo gioco, la tua conoscenza del basket, hanno rapito per sempre chi, come chi sta scrivendo queste poche righe, si è sentito folgorato dal tuo esempio.
E in un periodo in cui gli americani (più di nome, che di fatto) lasciano raramente il segno e il ricordo, ripensare a quello che hai regalato a Bologna (e non solo) riempie il cuore. Perché Jim non era solo un giocatore di basket. Era il basket. Era il sogno divenuto realtà. Era il Duca Nero, Jimmone e il ricordo dei suoi polsini e del suo sorriso, dei suoi primi (tre) tiri dall’angolo e di quelle difese su Morse, Dalipagic e Delibasic, faranno parte per sempre della nostra storia. Del nostro amore per il basket. Perché se a 15 anni, ci si può innamorare dei canestri, questa passione, per chi è nato nel 1964, non può che trovare sfogo nella leggenda chiamata Jim McMillian. Per tutti, per sempre, il Duca Nero.