Un confronto necessario
Non c’è un ministro o un capo del governo che non deponga un fiore in via XX Settembre, ma nessuno ha ancora spazzato il polverone bianco che quella notte si levò come effetto di una bomba atomica” (da il Messaggero).
"Non c'è un ministro o un capo del governo che non deponga un fiore in via XX Settembre, ma nessuno ha ancora spazzato il polverone bianco che quella notte si levò come effetto di una bomba atomica" (da il Messaggero).
A distanza di anni dalla sera del 6 aprile del 2009, L’Aquila è ancora un cumulo di macerie, il centro storico lungi dall’essere ricostruito è ormai un ricordo, commosso, dolente, e al tempo stesso l’immagine di un fallimento.
Il fallimento è quello della pubblica amministrazione e delle tante promesse mai realizzate; i monumenti sono ancora puntellati tra le macerie, della comunità cittadina di un tempo non è rimasto più nulla, solo desolazione
In un sistema urbanistico policentrico come quello aquilano, finché il cuore pulsante del centro storico de L'Aquila non tornerà a battere, il funzionamento di tutto il sistema resterà compromesso.
E’ impressionante l’ammasso di rovine per cui ad oggi nulla si è ancora fatto, persino le infrastrutture urbane sono ancora precarie e inutilizzabili e a nulla servono le abitazioni del progetto C.A.S.E. portato avanti dalla Pubblica Amministrazione, nell’illusione che basti avere un giaciglio e quattro mura in cui abitare perché la normalità rifaccia capolino.
I nuovi insediamenti realizzati sembrano come calati dall’alto, senza attivare economie locali, sono comparti monofunzionali ben lontani dal garantire l’effetto città, semmai trasformano il nucleo abitato in una “città” dormitorio in cui nulla più rimane del vecchio tessuto sociale, storico, architettonico.
Come ogni essere vivente, le città sono organismi i cui elementi componenti, pur assolvendo diverse funzioni, non possono essere riguardati isolatamente in quanto dipendenti ed in relazione strettissima fra di loro determinano l’insieme di cui fanno parte: porte, strade, piazze, emergenze architettoniche e tessuto edilizio, tutte insieme concorrono a definire la “forma” urbana, sintesi figurativa ricca di tante reciprocità. Una forma che, naturalmente, non può essere interpretata come un astratto contenitore per le funzioni più diverse, essendo il prodotto finale della vita associativa di una comunità umana in un determinato luogo, dalla sua origine sino alla presente contemporaneità. Divisa, separata dal proprio tessuto identificativo, e comunitario, la comunità di un tempo si ritrova a vivere in un contesto limbico, di perpetua attesa che qualcosa accada, che si ritorni ad essere come un tempo.
Oggi in Emilia Romagna il dramma si ripete. Su Mantova, Mirandola, Finale Emilia, Cento, S. Agostino e tanti altri comuni duramente colpiti dal sisma di poche settimane fa, aleggia lo spettro della città fantasma Abruzzese.
Che cosa fare di tutti questi monumenti distrutti o squarciati? Le strade sono due, quella praticata in Friuli dopo il terremoto del 1976 e quella imboccata dal governo Berlusconi dopo l’evento sismico del 2009 a L’Aquila. Nel primo caso si scelse di ricostruire gli edifici, per quanto possibile, nella forma originale; l’esempio per eccellenza fu quello del duomo medioevale di Gemona, minuziosamente ricostruito rimontando, quando recuperabili, i materiali antichi. Nel caso dell’Aquila, si decise invece per quella che venne definita opzione “new town” (si noti l’uso dell’inglese che, in certi contesti, fa sempre tendenza). Si scelse di assicurare subito un’abitazione ai cittadini aquilani in insediamenti del tutto nuovi, lasciando nel frattempo irrisolta la questione della ricostruzione del centro storico e della conseguente identità.
L’assessore provinciale all’ambiente, Alberto Grandi, sostiene che è meglio abbattere le chiese e i campanili pericolanti e ricostruire un nuovo tipo di socialità nei vari paesi colpiti dal terremoto. Ancora una volta nonostante gli errori commessi anche nel più recente passato, non si è appreso nulla. Così come a L’Aquila anche da noi aleggia lo spettro della memoria non più recuperabile; degli interessi economici dei pochi legati alla ricostruzione che, come in Abruzzo al momento del sisma, si saranno attivati esultando per il nuovo affare “caduto dal cielo”.
Intanto a L’Aquila gruppi di volontari, giovani architetti e ingegneri, lentamente si stanno riappropriando del vecchio centro urbano ricostruendo abitazioni in paglia, pietra, legno, capaci di resistere ad eventuali sismi ed estremamente più economiche delle abitazioni realizzate dal governo. Saranno i cittadini a ricostruire L’Aquila, così come saremo noi a ricostruire i luoghi della nostra memoria.