CHIAMATELA “geografia dei sentimenti”. Chiamatela “educazione sentimentale”. Chiamatela un po’ come volete, ma su un fatto non si discute. Con La fragile bellezza del giorno (Bompiani, pag. 222, euro 17) Giorgio Montefoschi (e la sua casa editrice) portano a casa, come si dice, un bel risultato. Per fare un banalissimo esempio dell’emozione che suscitano queste pagine – tranquilli: ora arriviamo anche alla trama – basta leggere il seguente dialogo tra la nipotina Elisa e il nonno Ernesto, lo scrittore protagonista del romanzo.
Chiede Elisa:
“Ma è difficile fare un romanzo?”
“Faticoso”
“Molto?”
“Sì, molto”.
Ecco, sta qui la chiave per capire la cifra stilistica del libro. Perché se è stato faticoso scriverlo (e non nutriamo dubbi a tal proposito data la vastità e profondità dello scavo che Montefoschi fa dei sentimenti umani) è struggente leggerlo. Per farla breve: fatica ripagata.

La trama. Essenziale, così come la scrittura. Secca e dolorosa come la vita. Il protagonista si chiama Ernesto, scrittore di successo da poco vedovo, alle prese con la “paura del foglio bianco” (in termini rozzi: quando non si sa come e che cosa scrivere), con due figli di cui uno vicino al divorzio, con dei nipotini affettuosi e con una ex nuora che gli presenta una donna bella, sensuale (sensualissima) e tormentata, di vent’anni più giovane di lui: 45 contro 65. Donna che riesce a stracciare il velo dell’uomo ferito, dello scrittore che non scrive più e che vaga, a passo incerto, in una Roma invernale (forse troppo perché la città è invece il simbolo assoluto della solarità).

 Attenzione: proprio Roma, la Roma borghese dei Parioli e di Prati è l’altro, grandissimo protagonista che ti avvolge e, in un certo senso, ti protegge. Non è solamente sfondo, è sostanza. In tal senso, pur con qualche tono crepuscolare di troppo, Montefoschi conferma il suo amore infinito per la città. Così come, di fatto e nonostante l’incontro con Claudia – la donna bella e sensuale cui accennavamo prima – proprio della storia di un amore infinito si parla in queste pagine. Meglio: si parla soprattutto in queste pagine. È Carla, la moglie, il perno cui ruota tutta la vicenda di Ernesto. Una Carla fragile e forte al tempo stesso, percorsa dal dubbio sottile ma persistente che nulla è eterno, che tutto cambia, che le svolte della vita sono tante e dolorose anche quando sembra che ogni cosa sia (quasi) al suo posto. In tal senso ci pare che i dialoghi – altro elemento stilistico fondante del romanzo -, nella loro apparente semplicità, rendano bene l’idea della poetica dell’autore.
Un sospetto si insinua quasi subito nel lettore sulla “qualità” dell’amore tra Carla ed Ernesto. Se per quest’ultimo è un amore totalizzante, lei invece appare sempre sull’orlo di un precipizio. Perché infatti dire a Ernesto “Tu non mi lascerai mai, è vero?”. Come mai questa richiesta-domanda-affermazione-dubbio? Perché la crisi è in agguato. Altro dialogo (straziante).

Chiede Ernesto: “Tu pensi davvero che il nostro matrimonio è in pericolo?”.
Carla: “Me lo domandi così? In mezzo alla strada, alle nove?”.
“Sì”.
E lei: “Io penso che ogni matrimonio è in pericolo; sempre, dal primo all’ultimo giorno…”.
“Io – la interrompe Ernesto – ti ho chiesto del nostro”.
“Il nostro è come tutti gli altri”.
“Come tutti gli altri?”.
“Sì. Come tutti gli altri”.
Ernesto capisce. Capisce – e volutamente riportiamo un’altra lunga citazione perché serve a comprendere ancor meglio quanto questo romanzo valga la pena di essere letto (divorato?) – che lei è percorsa da dubbi tempestosi: “Pensavo che, con quelle parole, all’improvviso, anni e anni d’amore colmi di baci, di carezze, del profumo della sua pelle, del sapore delle sue labbra, si sarebbero ridotti a nulla, sarebbero sprofondati nel vuoto”.
E potremmo continuare all’infinito. Ma siccome caldeggiamo che i nostri lettori si immergano nella lettura di questo libro, non andiamo oltre, a parte pochissime altre avvertenze.

Non manca l’eros. Ma non è sguaiato bensì garbato e malinconico. Ci si aspettava, nelle prime pagine, un romanzo di “rinascita” e si assiste a un doloroso quanto esaltante percorso della “memoria”. Qua e là spuntano momenti di gioia, la gioia del ricordo, dei sapori, degli odori. Se Roma è ineguagliabile (anche se, ripetiamo, un po’ cupa nei colori), anche gli altri luoghi sono descritti con maestria. Su tutti, Sermoneta e la casa di Ernesto.
Dunque, un libro da leggere. Ma attenzione. Se vi farà soffrire, poi, a lettura conclusa, vi sentirete più forti. Perché saprete di non essere soli. Un’altra citazione e poi basta davvero: “Quando facevamo l’amore, avvertivo una resistenza che si imponeva di amare e non riuscivo a contenere la tensione. Al buio, pensavo che era ingiusta; che non mi voleva più bene; che presto sarei rimasto solo”. Sì, Ernesto rimarrà solo. Non perché un amore è finito, ma perché il destino (cinico e baro per davvero) ha deciso diversamente. Con quelle dolorose schegge conficcate nel cuore.