Una, cento, mille ferite. Insanabili. Nelle carni e nel cuore. E poi: il tradimento, la fine di un’epoca, tinte fosche che macchiano i paesaggi di una Novara cupa e periferica, il sole di Roma che fa da contrappunto e regala gli unici momenti di serenità. Un noir che non è tale anche se c’è una bella figura di investigatore. I drammi familiari e, soprattutto, il vero protagonista: il demone del passato.

Non vogliamo limitarci a un elenco, ma il mestiere del recensore è duro quando leggi pagine come quelle di Luciana Capretti (che avrebbero meritato maggiore attenzione da parte della critica). Vorresti trovare una sbavatura, essere un po’ pedante ma non ce la fai perché Tevere (Marsilio, pagg. 220, euro 17,50) è davvero tutto da leggere.

Capretti narra una vicenda  ispirandosi a un personaggio reale. È il 1975. Una donna (bella, fragile, madre amorosa, moglie tradita) scompare. Lascia sulla riva del Tevere all’altezza dell’Isola Tiberina i documenti e un biglietto: «50 anni bastano». È la quarta volta che ci prova. Le altre tre è stata salvata per un soffio. Stavolta, probabilmente, ce l’ha fatta ad andarsene per sempre. Il figlio la cerca disperato. La figlia aspetta che torni e cresce molto (troppo?) in fretta. Il marito (traditore eppure quasi autoassolutorio) ripete a sé stesso ‘eppure ci siamo amati’.
Il commissario Jozzetti indaga ed entra in un tunnel di sentimenti caotico e nero rischiarato solo da rari raggi di sole («Roma è così bella al tramonto, si consolò»), un antro scuro che riporta alla luce le nefandezze della guerra civile. In tal senso, efficace risulta la scansione temporale che intreccia il piano personale e quello storico. E così il padre di Clara è il fascista fanatico e assassino, malato di sifilide, alcolizzato. Un simbolo.

La mamma, che diventa matta dopo la morte di una figlia per un incidente di cui Clara si sentirà sempre colpevole, è il prologo ai successivi e insoluti drammi. E, senza poter dire ‘infine’ perché di cose da raccontare ce ne sarebbero tante altre, quel «balletto alternato di passi quotidiani» che ben rende la cifra stilistica dell’autrice.
Proprio su questo punto vorremmo allertare il lettore. A fronte di romanzi che troppo spesso indugiano a barocchismi incomprensibili, Capretti riesce a costruire un racconto con uno stile da Codice civile. Quindi, oltre alla ‘storia’ si consiglia di prestare attenzione allo scorrere delle parole. Sempre al loro posto. Al contrario di Clara che, in fondo, cercava solo normalità. Ma che viene lasciata sola. Troppo sola per resistere perché per farlo bisogna avere un fisico bestiale. Non un corpo offeso dalla violenza.

 

PS Volete una dimostrazione dello stile asciutto e da Codice civile di questo romanzo? Ecco alcuni esempi.

“e poi le piaceva il vento vaporoso in faccia e fra i capelli, e sui polpacci nudi e su per le gambe fra le pieghe mosse e agitate della gonna” (p.23)

“Soprattutto non vogliamo sapere nulla dell’altra storia, stupida banale dolorosa, che potrebbe farci smettere di mangiare per sempre fichi insieme” (p.54)

“Si erano amati alla fine della guerra, quando Roma era una festa di ricostruzione, si girava in bicicletta o in tram, i film erano in bianco e nero e la gente pensava a colori. Una pop arti di entusiasmi, desideri, voglia di futuro”.

Qualche critico d’una volta avrebbe esclamato: “Potenza di queste parole!”. Io, più modestamente, aggiungo: osservate la forza di questi colori.

A questo punto non resta che aspettare la prossima prova della Capretti. E se magari ci regala ancora un po’ di quel sole di Roma…

Buona letteratura a tutti