NEL 1984 un trentacinquenne Massimo D’Alema, di ritorno dai funerali del dittatore sovietico Yurj Andropov, si mise a sedere al tavolo centrale dell’aereo presidenziale. Il presidente Sandro Pertini voleva giocare a tressette. Si formarono le coppie: da una parte Pertini e il leader del Pci Enrico Berlinguer, dall’altra il ministro degli Esteri Giulio Andreotti e D’Alema. Non vi fu partita. Andreotti e D’Alema stravinsero. Il che mandò in bestia Pertini. Tanto che Berlinguer prese da parte il suo pupillo e lo rimproverò: «Però qualche punto potevate lasciarlo…». Ecco, eppure questa vicenda ben rende la parabola del lìder Maximo, di colui che, per anni, è stato acclamato come il più intelligente, il più bravo, il più togliattiano, il più capace. Sì, perché D’Alema è un giocatore spregiudicato, cinico, pronto alla scommessa, ma che poi si incarta.

CLASSE 1949, da sempre in primo piano nella lotta politica italiana. Vuoi da leader della gioventù comunista, da leader di partito, da direttore dell’Unità. Il problema però è: quali i risultati raggiunti? Meglio: ci sarà qualche studioso dell’Italia del dopoguerra che narrerà del «dalemismo» come categoria politica come per il «craxismo», il «berlusconismo» e, ora, il «renzismo»? I più ne dubitano. Celebre la sua frase, datata 1994: «Se qualcuno si definisce dalemiano, chiamate la polizia». Risultato: il Nostro non è riuscito a creare una sua scuola politica.

PENSATE solo a Matteo Orfini. Segretario apprezzato della sezione Mazzini a Roma (quella cui è iscritto lo stesso D’Alema), colonna dello staff dalemiano a Palazzo Chigi, ottimo organizzatore della fondazione Italianieuropei, dopo una breve comparsata nella corrente di Pier Luigi Bersani in quota Giovani Turchi è ora presidente del Pd. E hai voglia a chiamarlo ‘mediatore’. Ma si sa che, oggi, senza dubbio alcuno, sosterrà Matteo Renzi di cui, sino a pochi mesi orsono, diceva cose tremende. E non è l’unico. Andrea Romano, intellettuale poi approdato a Scelta civica, già direttore della fondazione scrisse un velenoso Compagni di scuola. Ascesa e declino dei postcomunisti, in cui D’Alema non ne usciva per niente bene. Per non parlare di Claudio Velardi e Fabrizio Rondolino, suoi alfieri quando divenne, senza il responso delle urne, presidente del Consiglio (21 ottobre 1998). O di Marco Minniti, passato armi e bagagli con Walter Veltroni. O di Gianni Pittella, il potentissimo europarlamentare lucano. O di Nicola Latorre, suo luogotenente in Puglia. O di Francesco Bonifazi, ora tesoriere dem, che doveva tenere le fila a Firenze dell’associazione Red, Riformisti e democratici. E pare che anche all’altro rappresentante a Strasburgo, Roberto Gualtieri, di dalemiano sia rimasta solo qualche traccia nel sangue.

VABBÈ, succede. Del resto, direte, è ancor molto celebre il «dagli amici mi guardi Iddio che dai nemici mi guardo io». E quindi per il «quasi normalista» — non ha mai dato la tesi alla Normale di Pisa — si può andare ancor più sul politico puro. Vediamo. Elezioni in Puglia? Nichi Vendola vade retro. Voglio Francesco Boccia. Vince Vendola. Elezione del nuovo leader del Pd? Sostengo Gianni Cuperlo, simpatico politico triestino e gran lettore. Stravince Renzi. Già, Renzi. «Con quella bocca — sibilò riprendendo uno spot di Virna Lisi — può dire ciò che vuole. Ma la sostanza e le proposte politiche non portano una grande novità di contenuti». Poi, all’approssimarsi della nomina del ministro degli Esteri europeo, ecco che il tono cambia: «Renzi? Ci mandiamo sempre sms. Come i ragazzi». E via regali all’ex sindaco di Firenze (la maglia di Francesco Totti, la numero 10) e apprezzamenti sulla vittoria alle ultime elezioni (per la cronaca: Renzi piglia il 40,8 per cento). O, addirittura presentazione comune di libri. Come quello (ma guarda caso!) sull’Europa scritto dal Nostro in vista — dicono i maligni — della nomina poi mancata a Mister Pesc. Ci risiamo.

QUALCHE errore. Veniale. Come nel 1993. «Impossibile che Berlusconi entri in politica. Stia fermo, tanto prenderebbe pochi voti». Sappiamo com’è andata a finire. Ma forse è tutta colpa dei giornali italiani «tanto dannosi quanto irrilevanti». Diciamo.